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Greenpeace: l’industria mineraria potrebbe distruggere i fondali oceanici

fondali oceaniciI fondali oceanici sono habitat incontaminati che potrebbero essere sconvolti dall’attività mineraria

 

(Rinnovabili.it) – L’industria dell’estrazione mineraria punta una nuova e pericolosa frontiera: i fondali oceanici. A lanciare l’allarme è un report di Greenpeace International che da una parte evidenzia il rischio in cui incorrerebbero habitat incontaminati e specie marine ancora sconosciute, mentre dall’altra evidenzia il crescente numero di autorizzazioni a missioni esplorative sui fondali oceanici concesse da diversi Governi in tutto il mondo.

 

“La salute dei nostri oceani è collegata da vicino alla nostra sopravvivenza. A meno che non agiamo subito per proteggerle, l’estrazione nelle profondità oceaniche potrebbe avere conseguenze devastanti sulla vita marina e su quella umana – ha spiegato Louisa Casson, portavoce per la campagna Protect the Oceans di Greenpeace – Le profondità del mare sono il più grande ecosistema del Pianeta e casa di creature uniche che possiamo a mala pena concepire. Quest’avida industria potrebbe distruggere meraviglie delle profondità oceaniche prima ancora di poter avere una possibilità di studiarle”.

Il report di Greenpeace, infatti, sostiene che al momento solo lo 0,0001% dei fondali marini ad alte profondità è stato esplorato e collezionato da scienziati e biologi.

 

Nel frattempo aumentano sempre più le concessioni per avviare attività esplorative dei fondali marini: attualmente Cina, Corea del Nord, Regno Unito, Francia, Germania, India, Russia e Polonia hanno approvato 29 licenze per la ricerca di minerali e metalli in siti nell’Oceano Pacifico, Atlantico e Indiano. Il complesso delle aree autorizzate coprirebbe un’area vasta oltre 1 milione di chilometri quadrati, circa il doppio della superficie della Spagna.

 

Secondo gli esperti consultati da Greenpeace, l’esplorazione dei fondali marini profondi potrebbe distruggere interi habitat, rilasciare tossine e agenti inquinanti in ambienti rimasti incontaminati per millenni e causare la scomparsa delle delicate forme di vita che vi abitano.

 

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La campagna arriva a pochi giorni dalla partenza della nave Esperanza diretta verso il centro Atlantico, alla cosiddetta Lost City, una formazione attiva di comignoli idrotermali sul fondo dell’oceano inserita dall’Unesco tra i patrimoni dell’Umanità. Nel 2018, l’area della Lost City è stata inserita in un progetto di esplorazione mineraria varato dal Governo polacco e autorizzato dall’International Seabed Authority (ISA).

 

Proprio il ruolo dell’ISA è al centro della contestazione degli attivisti di Greenpeace, secondo cui l’ente internazionale “non persegue lo scopo di proteggere i nostri oceani ed è più concentrato a promuovere gli interessi dell’industria d’estrazione nelle profondità marine”.

 

Di qui, Greenpeace lancia un appello ai Governi mondiali per la sottoscrizione di un Trattato Globale per l’Oceano da proporre in seno alle Nazioni Unite che ponga la conservazione e non l’esplorazione, al centro della governance dei mari: “È fondamentale che i Governi concordino un trattato delle Nazioni Unite abbastanza forte da spianare la strada alla creazione di una rete di santuari oceanici che sarà off-limits per tutte le forme di sfruttamento industriale, inclusa l’estrazione in acque profonde– ha concluso Luoisa Casson – Così com’è necessaria l’applicazione di standard ambientali molto più elevati per qualsiasi attività di questo tipo al di fuori di questi santuari”.

 

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