Con oltre 640.000 tonnellate tra lenze e reti abbandonate ogni anno, la pesca commerciale è tra i principali responsabili dell’inquinamento da plastica negli oceani
(Rinnovabili.it) – Nonostante l’enorme quantità di rifiuti plastici monouso raccolti lungo le spiagge di tutto il mondo siano riconducibili ad una manciata di multinazionali (operanti in particolare nei settori alimentare e cosmetico), i principali responsabili dell’inquinamento da plastica degli oceani risultano ad oggi essere gli attrezzi da pesca persi ed abbandonati dai pescatori.
Ad evidenziarlo è un nuovo Report di Greenpeace, secondo il quale ogni anno, negli oceani, vengono scaricate oltre 640.000 tonnellate tra reti, lenze, trappole ed altri strumenti da pesca. Basti pensare che, secondo un recente studio, le 42.000 tonnellate di macro-plastica che compongono l’enorme isola di rifiuti accumulatasi nel Pacifico settentrionale risulta essere costituita per l’86% da reti da pesca. “L’attrezzatura fantasma (Ghost Gear, cioè appunto gli attrezzi da pesca abbandonati e perduti) rappresenta una delle principali fonti di inquinamento plastico oceanico ed influenza la vita marina nel Regno Unito tanto quanto in qualsiasi altro luogo del mondo”, ha dichiarato al The Guardian Louisa Casson della Campagna Oceani di Greenpeace UK. “I governi di tutto il mondo devono agire per proteggere i nostri oceani globali e stringere l’industria della pesca con regolamentazioni che la obblighino a smaltire correttamente i rifiuti pericolosi. Un primo fondamentale passo verrà fatto con il Trattato globale sull’oceano che verrà concordato alle Nazioni Unite il prossimo anno”.
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Il Rapporto insiste sulla pericolosità di tali strumenti per la vita marina. Tutta la plastica negli oceani può intrappolare, soffocare o uccidere gli animali, tuttavia l’inquinamento plastico del settore ittico risulta ancora più letale perché specificamente progettato per catturare e uccidere la fauna marina. “Le reti da pesca in particolare – spiega Casson – rappresentano un’enorme minaccia per per la fauna selvatica, dai pesci più piccoli ai crostacei, dalle tartarughe agli uccelli marini, fino alle balene già a rischio di estinzione”. Il pericolo è ancora più alto se si considera che questi elementi, una volta in acqua possono viaggiare alla deriva fino alle coste dell’Artico, una delle aree incontaminate più a rischio del Pianeta, o intrecciarsi con la barriera corallina causando enormi danni all’intero ecosistema. La diffusione di simili rifiuti plastici si deve sia alla pesca illegale, non normata e non dichiarata, che a quella industriale: secondo l’ONG, la scarsissima regolamentazione ed il lento progresso politico nella creazione di santuari oceanici che vietino la pesca industriale in aree protette sono ciò che di fatto consente al problema di persistere ed aggravarsi.
Per questi motivi, Greenpeace chiede al trattato delle Nazioni Unite di fornire un quadro globale per la protezione marina, favorendo l’apertura di santuari oceanici in grado di tutelare almeno il 30% degli oceani entro il 2030.
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