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Si torna a parlare di geoingegneria contro il riscaldamento globale

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La geoingegneria è tra i temi trattati in questi giorni dall’Assemblea sull’Ambiente delle Nazioni Unite

(Rinnovabili.it) – Rilasciare sostanze chimiche nell’atmosfera per schermare i raggi solari e abbattere così l’innalzamento delle temperature, senza causare controeffetti negativi per la vita sul Pianeta: l’idea di ricorrere alla geoingegneria per combattere il cambiamento climatico è stata rilanciata da un gruppo di ricerca dell’Università di Harvard.

 

Non si tratta di una novità: il rilascio di gas artificiali per consentire un raffreddamento forzato dell’atmosfera è al vaglio di studiosi già da tempo; in molti però, sostengono il rischio che una overdose di gas artificiali possa alterare in maniera pericolosa l’equilibrio atmosferico. Il gruppo di ricerca americano, coordinato dal professor Peter Irvine, ha utilizzato modelli matematici di previsione e sistemi statistici per stabilire quali possano essere le quantità ideali di gas artificiali da rilasciare nell’atmosfera: secondo gli studiosi, il corretto bilanciamento di appositi gas, in coordinazione con politiche di taglio delle emissioni, avrebbe un impatto positivo nel frenare l’innalzamento delle temperature ma anche nel mitigare alcuni fenomeni climatici divenuti sempre più violenti negl’anni recenti, come ad esempio gli uragani.

 

Secondo i dati della ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Climate Change, “solo” lo 0,5% della superficie terrestre rischierebbe un impatto climatico dannoso derivato dall’uso di tecniche di geoingegneria: “Esistono ancora grandi inceretezza – ha commentato il professor Gordon McKay, tra i principali autori dello studio – ma i modelli cimatici ci suggeriscono che la geoingegneria può portare a benefici sorprendentemente uniformi”.

 

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Il settore geoingegneristico è al centro dell’attenzione della comunità politica oltre che di quella scientifica: una delegazione di nazioni, capitanate dalla Svizzera, ha richiesto all’ONU, riunito dall’11 al 15 marzo a Nairobi, in Kenya, nella quarta Assemblea per l’Ambiente, di deliberare in merito alla creazione di un report riassuntivo sulle tecnologie di geoingegneria attualmente disponibili, da quelle deputate a catturare CO2 dall’atmosfera fino a quelle che prevedono l’immissione di gas schermanti contro i raggi solari. Il report dovrebbe essere pronto per l’agosto del 2020 e contenere linee guida per indirizzare la ricerca scientifica dei singoli Paesi membri.

 

Non si tratta della prima occasione in cui la comunità internazionale è chiamata a considerare il potenziale apporto della geoingegneria: già nel 2010, 196 nazioni richiesero una moratoria sulle tecnologie geoingegneristiche citando lacune scientifiche e sui rischi economici, sociali e ambientali di tali innovazioni.

 

L’andamento della discussione presso l’Assemblea ONU è difficilmente prevedibile: l’adozione di tecniche di geoingegneria per contrastare il cambiamento climatico è attualmente osteggiata da grandi attori internazionali quali Stati Uniti e Arabia Saudita oltre che da gruppi e associazioni ambientaliste: il principale punto in causa resta la relativa economicità di tali soluzioni che permetterebbe un’applicazione incontrollata da parte di una moltitudine di Paesi. Di qui la rilevanza di studi come quello del professor Irvine che, al quotidiano The Indepent, ha spiegato: “L’analogia non è perfetta ma la geoingegneria solare è un po’ come un farmaco che tratta l’ipertensione. Sarebbe meglio non avere pressione alta in primo luogo, ma una volta che il problema è in corso, vale la pena considerare le opzioni: un sovradosaggio sarebbe dannoso, ma una dose ben scelta potrebbe ridurre i rischi”.

 

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