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Geoingegneria per salvare la barriera corallina

Riflettere la luce solare spargendo solfati in atmosfera per impedire lo sbiancamento dei coralli. Così un team di ricerca spinge la geoingegneria

Geoingegneria per salvare la barriera corallina -

 

(Rinnovabili.it) – Tecniche di geoingegneria per salvare le barriere coralline. La trovata esce dal cilindro della Carnegie Institution for Science e dell’università di Exeter, un centro di ricerca con il chiodo fisso della manipolazione del clima.

Secondo uno studio pubblicato da Nature Climate Change, la tecnica denominata Solar Radiation Management (SRM), avrebbe effetti migliori sul reef di una drastica riduzione della CO2 per “via politica”. Questa branca della geoingegneria prevede la gestione delle radiazioni solari in modo da rifletterle e ridurre, di conseguenza, il riscaldamento globale. Accade in natura con l’eruzione dei vulcani, che spargono in atmosfera particelle di biossido di zolfo in grado di schermare la luce e abbassare la temperatura al suolo. È esattamente questo che gli scienziati autori dello studio intendono fare: inseminare l’atmosfera con aerosol di solfati, le cui particelle funzionino da specchio deflettore dei raggi del sole.

 

Le barriere coralline sono considerate uno degli ecosistemi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, a causa dell’aumento delle temperature superficiali del mare e dell’acidificazione degli oceani provocata da una maggiore concentrazione di CO2 in atmosfera. La Grande Barriera Corallina, ad esempio, sta rischiando il cosiddetto “sbiancamento”, che può portare alla morte dei coralli. C’è da dire che, in questo caso, il governo australiano ci sta mettendo parecchio del suo per accelerare il processo, riversandovi sopra la sabbia ricavata dalle operazioni di ampliamento dei porti. Ma questa è un’altra storia.

 

Geoingegneria per salvare la barriera corallina_

 

La geoingegneria: tanti rischi, nessuna soluzione duratura

Geoingegneria per salvare la barriera corallinaEsperimenti in laboratorio e in spazi controllati sono già stati portati a termine, ma sono in gran parte sconosciute le ricadute che una simile pratica potrebbe avere sugli ecosistemi e le comunità. Sono stati sollevati forti dubbi sulla capacità di tali tecniche di ridurre l’acidificazione degli oceani: in fondo, non abbattono la concentrazione di gas serra in atmosfera, si limitano soltanto a schermare il sole per periodi limitati, legittimando le compagnie fossili a continuare con il business as usual. Senza contare che, a seguito dell’uso di tecniche SRM, per alcuni si rischiano rallentamenti del ciclo idrologico globale. Una volta terminato l’effetto, inoltre, esiste il rischio di impatti ancora più bruschi derivanti da un repentino aumento della temperatura.

In ultimo, sono stati di recente richiamati i pericoli di un utilizzo a fini militari delle tecniche di modificazione del clima. La CIA ha contribuito a finanziare l’ultimo report della National Academy of Science, e ha contattato un ex membro dell’IPCC per ottenere informazioni sull’uso bellico della geoingegneria.

 

Le pressioni della scienza

Eppure, alcuni istituti di ricerca continuano a spingere sulla politica, specialmente negli USA, perché affianchi alle politiche di riduzione della CO2 le tecniche di geoingegneria. La retorica è sempre quella dell’ultimatum, con la quale è perfettamente in linea anche Lester Kwiatkowski, principale autore della ricerca uscita su Nature: «Questo studio dimostra che o accettiamo la perdita di un’ampia percentuale di barriere coralline nel mondo, oppure dobbiamo cominciare a pensare oltre la mitigazione delle emissioni di CO2».

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