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Fukushima è una domanda, a noi la risposta

Ad un anno dall’incidente giapponese la situazione non è ancora tornata alla normalità ma nel resto del mondo si “va avanti nonostante tutto”

Un anno fa, l’incidente nucleare alla centrale di Fukushima. Fukushima che è stata come Chernobyl. A metterlo nero su bianco dopo settimane di inaccettabile incertezza  è stato – ricordiamolo –  l’innalzamento dell’incidente giapponese al livello 7, il massimo sulla scala internazionale di classificazione, raggiunto prima d’ora solo dal disastro del 1986.

Ma se Chernobyl ha avuto, fino ad oggi, un impatto ambientale superiore, dato che i rilasci sono avvenuti in forma aeriforme invece che – come a Fukushima – liquida, e hanno interessato tutto il mondo, Fukushima tuttavia solleva questioni di credibilità ancora maggiori per l’industria nucleare, rispetto agli incidenti precedenti. L’incidente di Fukushima ha avuto luogo in una economia avanzata che usa reattori a tecnologia giapponese/americana, e non in uno stato totalitario con standard tecnologici sotto alla norma e senza una cultura della sicurezza, come era l’Unione Sovietica. Inoltre, la dimensione e soprattutto la durata dell’incidente sono stati senza precedenti: mentre dopo una settimana tutto si sapeva di Chernobyl e i rilasci erano praticamente terminati,  ancora dopo un mese dall’incidente i quattro reattori stavano affrontando un danno significativo senza che gli addetti li avessero messi sotto controllo.

Tutto ciò ha fatto nascere dubbi sul fatto che anche un’economia avanzata possa padroneggiare la sicurezza nucleare: è questa l’eredità più pesante – per l’industria nucleare – dell’incidente giapponese. C’è un fenomeno fisico che va oltre ed al di là di tutti i sistemi di sicurezza dei quali si può orpellare un reattore nucleare: i reattori nucleari anche da spenti continuano a emanare calore. Questo è stato alla base dell’evoluzione perniciosa di incidenti come Chernobyl e Fukushima.

L’impatto in questo primo anno dell’incidente è stato la chiusura di vecchi impianti nucleari in Giappone e anche – silenziosamente – in giro per il mondo nel futuro: il rinnovo delle licenze di esercizio per allungare la vita degli impianti più anziani viene concesso con molta più difficoltà, provocando di fatto la loro uscita anticipata di scena.

Riandiamo per un attimo alla situazione di un anno fa: esplosioni continue minacciavano di danneggiare e provocare un cedimento del contenitore primario di cemento. Tutta la radioattività ivi contenuta rischiava di trovarsi in condizioni di rilasciabilità, anche a causa del fatto che le strutture interne al reattore si erano fuse parzialmente, diventano esse stesse fonte di radiazioni.

Ci sono stati due aspetti di rischio davvero terribile che abbiamo corso e di cui siamo stati muti e trepidi spettatori: da una parte, c’è stata una fusione parziale del nocciolo nei reattori. Crescendo la temperatura, tutti i materiali possono liquefarsi, perdendo quindi la loro integrità fisica e rilasciando all’interno del contenitore primario molta radioattività. Dall’altra parte, salendo la temperatura si ha una reazione chimica fra lo zirconio, la camicia dentro cui le barre di combustibile sono alloggiate e l’acqua, il che produce ossido di zirconio e idrogeno. L’idrogeno è un esplosivo e ha dato luogo agli scoppi a cui abbiamo assistito incrociando le dita e sperando nella robustezza delle strutture. Queste esplosioni, infatti, oltre a danneggiare le strutture interne del reattore, riducendolo a un rottame, potevano anche compromettere l’integrità dell’ultima barriera, quella a cui tutti abbiamo appunto guardato con speranza e apprensione: il contenitore primario in cemento, quella enorme struttura semisferica o quasi che si vede da lontano e che caratterizza le centrali.

Alla fine, in qualche modo, quei contenitori hanno tenuto almeno parzialmente. Il grosso della radioattività è stato emesso in forma liquida, quando disperatamente i reattori sono stati inondati di acqua di mare per refrigerarli, rilasciando poi l’acqua contaminata nell’oceano, con conseguenze sull’inquinamento della fauna e della flora marina ancora difficili da determinare. Il percorso e la traccia dell’inquinamento acquatico sono infatti molto più difficili da individuare rispetto a quello aeriforme: anche in acque apparentemente pulite, a seguito del fenomeno della bioconcentrazione, si possono trovare a vivere piante ed animali con elevate concentrazioni di nuclidi radioattivi: lo abbiamo sperimentato noi stessi con le alghe vicine alla base per sottomarini nucleari della Maddalena in Sardegna, che a fronte di un piccolo incidente in un sottomarino nucleare e in acque ormai pulite, portavano nel loro corpo concentrazioni anomale di Plutonio che testimoniavano come qualcosa fosse successo.

Oggi non è finita: è di un mese fa circa la notizia sulla nuova situazione di allarme, sebbene non grave, alla centrale di Fukushima: la temperatura sul fondo del reattore n.2 della centrale  è tornata a salire, raggiungendo il punto più alto da quando lo scorso dicembre è stato dichiarato lo stato di arresto a freddo dell’impianto danneggiato dall’evento del 2011. Il gestore Tepco ha aumentato la portata dell’acqua utilizzata per rimuovere il calore residuo generato dal nocciolo, ancora molto radioattivo e quindi “caldo”, passando da 13,6 a 14,6 tonnellate all’ora. La situazione è rimasta sotto controllo. Ma nel caso vi fossero state o vi siano in futuro nel nocciolo danneggiato situazioni di “ri-criticità” anche parziale, ovvero se il nocciolo riprendesse spontaneamente a “funzionare”, cioè a intrattenere reazioni di fissione a catena autosostenentisi, la situazione diverrebbe più preoccupante, a causa della produzione di ulteriore potenza (calore nell’unità di tempo da rimuovere) e di ulteriori prodotti di fissione a vita media corta e potenzialmente più pericolosi. Ma un indicatore della presenza di questi processi è un prodotto di fissione gassoso e radioattivo appartenente ai gas nobili, lo Xeno-133, che è invece stato rilevato essere ora assente.

Parlando di Fukushima, tanto è stato detto, e queste poche righe vogliono solo rinfrescarci la memoria, senza poter tornarci sopra con completezza. Ma voglio ripetere ai lettori di “Rinnovabili” una mia esperienza lavorativa recente. Sono stato, nello scorso novembre, al grosso Convegno dell’American Nuclear Society (Ans) tenutosi a Washington: in quei giorni, sono stato immerso in un’atmosfera priva di dubbi e ottimista sul futuro dell’energia nucleare. I lettori italiani potrebbero esserne stupiti: a un anno da Fukushima, a valle del referendum italiano, a valle del ripensamento di alcuni paesi sull’energia nucleare, in altre parti del mondo si “va avanti nonostante tutto”: Fukushima viene classificato come un “incidente di percorso” che alla fine “è stato gestito abbastanza bene”, con “conseguenze limitate” a livello di inquinamento.

Noi non la pensiamo così, è inutile ribadirlo. Pensiamo che occorra trovare il modo per poter fare a meno di aver bisogno dell’energia nucleare. Quegli oltre quattrocento impianti nucleari tuttora in funzione e gli oltre sessanta in costruzione possono trovare un’alternativa valida: sia essa il risparmio energetico e la decrescita, siano le energie rinnovabili più pronte e mature. Fukushima è una domanda, ci ha posto un interrogativo: sta a noi trovare una risposta.