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Fracking, gli USA pensano agli acquedotti ma non alle falde

L'Agenzia per la protezione ambientale bandisce i reflui nocivi (e radioattivi) dal ciclo di depurazione. Ma la fratturazione idraulica minaccia ancora gli acquedotti se inquina le falde acquifere

Fracking, gli USA pensano agli acquedotti ma non alle falde

 

(Rinnovabili.it) – L’acqua usata per il fracking non può finire nel normale ciclo di trattamento e depurazione. La decisione, valida per tutto il territorio degli Stati Uniti, arriva dall’Agenzia per la protezione ambientale (EPA) che riconosce l’incapacità degli impianti tradizionali di trattare gli inquinanti tossici e radioattivi di cui sono pieni i reflui nocivi provenienti dalle operazioni di fratturazione idraulica. E’ un passo avanti, ma neanche troppo: infatti se il fracking inquina le falde acquifere, gli acquedotti non sono comunque al sicuro.

“Permettere che acque tossiche e radioattive siano trattate negli stessi impianti dove finiscono gli scarichi domestici è una sfida alla logica – commenta Rachel Richardson, direttrice del programma Stop Drilling per Environment America – E’ una decisione di buonsenso”.

Il destino delle acque tossiche del fracking 

Fracking, gli USA pensano agli acquedotti ma non alle faldeLe compagnie che sfruttano lo shale si trovano davanti tre possibilità per gestire le loro acque reflue. Possono impiegarle nuovamente per altre operazioni di fracking, una pratica che certo non diminuisce l’alto rischio sismico causato dalla fratturazione né quello dell’inquinamento delle falde acquifere sotterranee.

Oppure possono stoccarle in appositi bacini artificiali. Anche qui i rischi non mancano, anzi. Dopo lo sfruttamento di un giacimento di shale gas, in media vengono riassorbiti 5 milioni di litri di acque miste a sostanze chimiche, molte delle quali cancerogene. I pozzi di smaltimento che devono accoglierle rappresentano un costo per le aziende, che spesso non si fanno scrupoli a collocare i depositi di scorie, impermeabilizzati alla bell’e meglio, in prossimità delle periferie del corpo sociale: quartieri poveri, popolati da immigrati ispanici e afroamericani, tutti vittime di razzismo ambientale.

In alternativa, le aziende possono avviare i reflui nocivi a trattamento, proprio negli stessi impianti dove vengono depurate le acque di provenienza domestica. In questo caso il rischio non è soltanto legato all’incapacità degli impianti di gestire rifiuti radioattivi, perché è lo stesso sistema di depurazione a rappresentare una minaccia. Il mix di bromuro presente nei reflui e di clorina impiegata dagli impianti può produrre una tossina responsabile di cancro alla vescica e aborti indotti.