Il veto di Varsavia blocca la ratifica dell’emendamento di Doha
(Rinnovabili.it) – In mancanza di passi avanti, alla COP 23 i delegati tornano a riaccendere le vecchie liti. Gli ultimi screzi riguardano addirittura l’emendamento di Doha, cioè il prolungamento degli impegni del Protocollo di Kyoto tra il 2012 e il 2020. Se è vero infatti che tutti puntano a perfezionare l’accordo di Parigi, è pur vero che questo copre soltanto il periodo 2021-2030, mentre da quando è scaduto l’ultimo patto internazionale sul clima, nel 2012, nessun impegno è stato più condiviso.
Questo ha fatto montare il risentimento nei paesi in via di sviluppo, infastiditi dal fatto che mentre sugli impegni a lungo termine si sia tutti sulla stessa linea, nel frattempo le cose non cambiano.
Nel mirino è finita l’Unione Europea, che a 5 anni dall’approvazione dell’emendamento di Doha, non è riuscita a ratificarlo in blocco. Il testo, che dovrebbe traghettare la comunità internazionale dal Protocollo di Kyoto all’Accordo di Parigi fissa un impegno di riduzione delle emissioni del 30% tra il 1990 e il 2020. Ma deve essere approvato da almeno 144 paesi per entrare in vigore. Alla fine di ottobre, solo 84 l’avevano ratificato, tra cui appena 6 europei: Spagna, Lussemburgo, Italia, Ungheria, Germania e Belgio.
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L’UE si trova oggi a dover reagire alle pressioni che vengono soprattutto dai paesi del Sud del mondo, e sta pensando di farlo senza la Polonia, unico grande scoglio che blocca questa operazione. La dipendenza dal carbone, infatti rende Varsavia un difficilissimo partner. L’UE avrebbe bisogno del sostegno unanime degli stati membri per ratificare l’emendamento come blocco politico, ma con la Polonia in campo è impossibile: il governo ricatta Bruxelles dichiarandosi disposto a cedere solo in cambio di finanziamenti per nuove centrali a carbone “pulito”, con cui rimpiazzare quelle più vecchie e meno efficienti che andranno incontro a chiusura nei prossimi anni.
Si va dunque verso una ratifica individuale dei 27 per aggirare il veto polacco, una mossa che dimostra ancora una volta quanto sia difficile per l’Unione parlare con una sola voce sul cambiamento climatico, nonostante il chiaro mandato conferitole dagli stati membri.