Rinnovabili

Vincent Mignerot: il coraggio di uscire dalla zona di comfort

Vincent Mignerot

di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo

Vincent Mignerot è saggista, analista e teorico dell’adattamento umano, attivista sui temi dell’ecologia e del rischio adattativo.

Quali connessioni o contraddizioni vede tra quello che la occupa come individuo (lavoro, ricerche, passioni, ossessioni…) e quello che la pre-occupa come essere umano che fa parte di molteplici collettività, dal locale al globale?

L’ecologia è lo studio della storia delle interazioni degli esseri viventi con il loro ambiente. Applicata alla nostra specie, l’ecologia significa capire che le attitudini umane, acquisite nel corso dell’evoluzione, hanno innescato un movimento antico, ora in via di accelerazione, di degradazione della capacità della biosfera di sostenere la vita. Oggi, lo stato del pianeta solleva domande sulla possibilità di una sesta estinzione di massa, alla quale l’umanità stessa potrebbe non sfuggire.

Essere umani e studiare l’ecologia significa allora dover fare i conti con le proprie facoltà, con il proprio impatto sull’ambiente naturale.

Il più delle volte, la mente favorisce la segmentazione della realtà, fornendo l’illusione che l’individuo sia un’entità indipendente dall’insieme di legami che definiscono il mondo. L’ecologia smentisce l’illusione: ci costringe a prendere in considerazione certe configurazioni della realtà che è più piacevole nascondere. Uscire intenzionalmente dalla propria zona di comfort emotivo crea tensione, qualche dissonanza è inevitabile.

Per me, studiare la complessità dell’esistenza ha significato che una parte di ciò che mi costituisce psichicamente rimane estraneo, fuori dalla sfera protettiva che definisce la mia soggettività. Percepisco, sento, sperimento permanentemente che qualcosa di diverso da me, qualcosa di esterno, mi impone le sue regole, il suo diktat.

I miei piaceri non sono più così leggeri, così spensierati come una volta. Devo stare costantemente attento alle persone che mi circondano, di cui devo rispettare le difese, altrimenti il dialogo non sarebbe più possibile. Devo ridurre il mio reddito e il mio consumo il più possibile, senza rendere troppo fragile me stesso o i miei cari. La consapevolezza dei vincoli che governano la mia esistenza e quella di tutti, l’accettazione delle mie contraddizioni, dei limiti delle mie capacità di ‘far cambiare le cose’ acuisce indubbiamente alcune frustrazioni. Ma nel complesso rende la mia vita molto più coerente e serena, condizioni necessarie per essere quanto più possibile disponibile al pensiero e all’azione collettivi.

“Se tutti in tutto il mondo facessero così, diventerebbe impossibile fare così per chiunque”. “Continuando a fare così, ben presto noi esseri umani non potremo più fare così”. Che cosa le evocano queste frasi?

A volte è giudicato male il ricordare che la specie umana è prima di tutto una specie vivente, le cui società costituiscono ecosistemi a sé stanti, governati da regole che derivano sia dalla storia della vita sulla Terra che dai costrutti culturali che conferiscono individualità a questa specie. Sembra importante ricordare che l’umanità non può rompere i suoi legami di dipendenza con il suo ambiente, che sfrutta in modo così specifico, né può funzionare da sola senza considerare che le sue interazioni con questo ambiente influenzano anche la sua organizzazione interna.

Dobbiamo poter ripensare che l’umanità costituisce un “noi”, cioè una comunità di esseri viventi dotati delle stesse capacità potenziali di sfruttamento sregolato dell’ambiente. Anche se non tutti gli esseri umani (e non sempre) hanno agito in questa maniera sregolata, né ieri né oggi, siamo proprio tutti “noi”, nella nostra totalità, qualunque cosa l’umanità pensi di se stessa, a essere soggetti a subire i limiti del carattere atipico del nostro adattamento. Una divisione concettuale arbitraria in categorie di esseri umani che si suppone funzionino intrinsecamente in modo diverso dagli altri – nel bene e nel male – è probabile che generi notevoli tensioni sociali, che vari oscurantismi sono sicuramente già pronti a mettere al proprio servizio.

Dobbiamo riconoscere che il nostro agire, di per sé, comporta un rischio potenziale, per quanto siamo umani. Dovremo fare i conti, tutti insieme, con il fatto che il nostro intervento sull’ambiente determinerà sempre, in qualche misura, una parte del futuro di tutti. Dobbiamo esserne consapevoli, appunto, per temperare al meglio l’azione collettiva.

Stanno finalmente guadagnando visibilità i problemi di sostenibilità biologica, economica, sociale, culturale che pesano sull’esistenza dell’umanità – eppure si tarda e si fatica troppo a prendere e attuare decisioni collettive conseguenti: non è che c’è qualcosa di insostenibile anche nell’organizzazione politico-istituzionale umana?

Non è certo che le strategie di elusione che osserviamo oggi siano inedite. La mente umana sembra essere dotata di capacità forse a lei peculiari, o per lo meno sfruttate come nessun’altra specie sa fare: la capacità di negare la realtà, da un lato, e il rifiuto della responsabilità, dall’altro. Siamo anche inclini a credere più fortemente nelle storie che ci raccontiamo che nella realtà che percepiamo. Inoltre, spesso tendiamo a ragionare a ritroso: decidiamo il risultato che vogliamo ottenere – per esempio, crescita infinita, riduzione delle emissioni di CO2 o una transizione energetica – e poi ci raccontiamo le storie che presumiamo possano portare a questi risultati.

Nel corso della nostra storia avremmo dovuto, e dovremmo oramai, prima di intraprendere un’azione collettiva, non negare nulla, non rifiutare nulla, lavorare per ipotesi e puntare solo sulle azioni che garantirebbero di non esporsi ad alcun rischio. Ma la strategia della prudenza, l’applicazione rigorosa del principio di precauzione, è senza dubbio incompatibile con gli interessi adattativi a breve termine dell’umanità…

Le nostre peregrinazioni contemporanee non sarebbero quindi il risultato di un fenomeno nuovo, di una specifica struttura politica, di strategie di marketing verde o di lobbying industriale particolarmente aggressive. Dobbiamo considerare che ciò che stiamo vivendo oggi è il risultato di un processo evolutivo molto antico. L’umanità, poiché preferisce sviluppare credenze che servono i suoi interessi immediati, potrebbe non essere stata sostenibile fin dall’inizio.

Ci aiuti per cortesia, pensando alla sua esperienza, a costruire una risposta collettiva a questa domanda: che cosa è indispensabile sapere e cosa è indispensabile imparare a fare per un essere umano oggi?

Ecologia significa scoprire un mondo che è allo stesso tempo assurdo e cinico. Cinico perché è assurdo. Nessun essere umano – nessun essere vivente – può sinceramente desiderare di ammettere che le possibilità sono disponibili solo in quantità finita. Che ci sarà una fine. Per ciascuno, per tutti, senza alcuna garanzia che il dopo ricordi in qualche modo il prima.

La cosa più importante sembra allora essere la lotta contro l’assurdità. Contro il fatalismo cui può indurre. Ma, per l’appunto, accettare la fatalità non è fatalismo. Gli esseri umani non sono perfettamente sovrani nelle loro decisioni. Nessuno decide da solo della sua vita o di quella degli altri, ogni decisione è sempre il risultato complesso di ingiunzioni e vincoli contro i quali nessuno può fare nulla: i principi della termodinamica, la selezione naturale, la lunga storia dello sviluppo di tecniche, culture e narrazioni politiche, le circostanze immediate stesse.

Accettare la fatalità non è rassegnazione, è riconciliarsi con il margine di manovra, per quanto piccolo, di cui dispone effettivamente ognuno di noi. L’accettazione protegge dalle fantasie e dalle illusioni, e minimizza il rischio di errore concreto.

Comprendere che ogni persona è sempre prima di tutto il risultato di un processo evolutivo che la trascende, che trascende l’umanità intera, è a mio avviso necessario per sottrarre investimento psichico alla strategia più pericolosa cui tendiamo quando preferiamo non accettare una situazione: la designazione arbitraria di colpevoli. Sembra importante che il cammino punti a una “responsabilità autonoma”. Le nostre scelte sono effettivamente il risultato di processi complessi, non hanno origine in un altro essere umano o in un particolare gruppo di esseri umani. Dobbiamo farci carico noi stessi del fatto che siamo attraversati da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo. Accettare, da ultimo, che ciascuno di noi ha da solo in carico le proprie contraddizioni e ritrovare così ciò che abbiamo in comune, poiché tutti gli esseri umani devono sempre confrontarsi con le loro contraddizioni.

Letture per approfondire. Di Vincent Mignerot: L’Energie du déni, Ed. Rue de l’échiquier, Paris 2021; AAVV, L’Effondrement de l’empire humain, Ed. Rue de l’échiquier, Paris 2020; Essai sur la raison de tout, Solo, Paris 2014. Sulla condizione neurologica della sinestesia, di cui pure Mignerot è specialista: https://synestheorie.fr/

Chi volesse reagire a queste risposte, ponendo altre domande a Vincent Mignerot, ci scriva a formazione@rinnovabili.it. Alla luce delle sue riflessioni, noi gli e vi domandiamo:

La presa di coscienza individuale e planetaria della possibile insostenibilità primigenia degli esseri umani non rischia di nascondere il fatto che vi sono ineguaglianze sociali, strutturali, che assegnano differenti responsabilità all’interno della società umana? Senza affrontare queste ineguaglianze, il discorso ecologico non rischia di trasformarsi in uno strumento ideologico per mantenerle intatte?

Fino a che punto è politicamente responsabile evitare di “dare fastidio” agli altri che ci circondano e che preferiscono restare nella loro “zona di comfort”?

La sua analisi della tendenza psichica umana a negare, de-responsabilizzarsi, costruirsi realtà narrative non potrebbe costituire il punto di partenza stesso di una riflessione trasformativa delle istituzioni, cioè dell’assetto organizzativo che possa permettere agli esseri umani di “confrontarsi con le loro contraddizioni”?

Exit mobile version