Dal giorno del voto europeo almeno fino a quello del secondo turno delle elezioni francesi si è aperto un interrogativo molto chiaro e altrettanto angoscioso: la transizione green è politicamente morta?
Con il voto europeo di giugno ci siamo tutti accorti del fatto che la transizione green è sì un dato acquisito dagli scienziati, dai settori più avanzati dell’economia, dagli imprenditori più innovativi, dagli intellettuali, dalla generalità dei media e soprattutto dalle giovani generazioni; ma è anche un fenomeno che suscita, man mano che progredisce, vaste resistenze e paure soprattutto tra gli strati più popolari.
Il consenso dato ai partiti di destra e di estrema destra in tanti paesi europei – non a caso in particolare nelle periferie delle città e nelle aree periferiche e rurali – terremotando l’equilibrio politico in Francia, punendo il governo socialdemocratico in Germania o frenando qua e là il voto ai Verdi, non ha provocato un totale ribaltamento della situazione ma ha di gran lunga rafforzato chi da tempo accusa la Commissione di “ideologismo green”, di masochismo industriale, di eccessivo allarmismo, di indifferenza al tema della sostenibilità sociale della transizione.
Dal giorno del voto europeo almeno fino a quello del secondo turno delle elezioni francesi si è aperto un interrogativo molto chiaro e altrettanto angoscioso: la transizione green è politicamente morta?
A giudicare dalla formazione della maggioranza della nuova Commissione (PPE, PSE, Liberali, Verdi) e dal discorso al Parlamento europeo della confermata presidente von der Leyen, a quella domanda si può rispondere che no, ci sono ancora i margini perché la transizione vada avanti. E infatti von der Leyen ha confermato l’obiettivo del taglio del 90 per cento delle emissioni al 2040.
Però la presidente, tanto per fare un esempio non secondario, nel suo discorso programmatico non ha citato uno degli scogli più aguzzi su cui la politica green della Commissione ha rischiato e rischia di naufragare: lo stop ai motori a combustione per il 2035, specificando nel contempo che “serve un’ampia gamma di tecnologie innovative in settori che vanno dalla mobilità all’energia in cui gli e-fuel avranno un ruolo da svolgere”.
Allo stesso modo, annunciando l’eccellente proposta del Clean Industrial Deal, è stata prudente sul suo finanziamento ben sapendo quanto i “paesi frugali” siano contrari a ripetere operazioni di debito comune. Insomma, il cammino green non si ferma (“manteniamo la rotta con pragmatismo, neutralità tecnologica e innovazione”) ma si capisce che qualcosa, forse molto, è cambiato.
Gli opportuni compromessi di von der Leyen per, da una parte, conquistarsi il voto dei Verdi e dall’altra non perdere quello dei settori più conservatori del PPE, consentiranno alla nuova Commissione di andare avanti ma con un passo diverso. Per una ragione inoppugnabile: la nuova Commissione si regge su un equilibrio asimmetrico con gli orientamenti delle opinioni pubbliche nazionali.
A Bruxelles si è riusciti ancora una volta a costruire una maggioranza che mette insieme moderati e riformisti e chiude le porte alle destre, ma questo paradossalmente aiuterà queste ultime, radicalizzando la contestazione alle politiche UE, ad allargare il loro bacino di consenso. Il fatto che in Francia si sia costruita una linea Maginot per fermare Marine Le Pen, non significa che la medesima non possa essere aggirata tra due anni quando si voterà per l’Eliseo, e lo stesso discorso si può fare per il voto tedesco del 2025. Il no dell’Italia alla conferma della presidente uscente in qualche modo anticipa questa dinamica che potrebbe potenziarsi a dismisura se a novembre Donald Trump dovesse rientrare alla Casa Bianca.
Non è detto che una saggia politica europea non riesca a superare la difficoltà in cui si trova: basta però esserne consapevoli (soprattutto da parte dei riformisti) e non far finta di nulla. Se gli attuali governanti di Palais Berlaymont pensassero di essere protetti da una turris eburnea compirebbero un drammatico errore di analisi politica.