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Rossella Muroni, un’ottimista preoccupata

Rossella Muroni ha accettato la nostra sfida e risposto alle nostre domande. Scopriamo la sua prospettiva sui problemi che abbiamo in comune e facciamone tesoro per interrogare criticamente noi stessi e il mondo.

Rossella Muroni

di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo

Rossella Muroni (https://www.rossellamuroni.it/) è deputata della Camera nell’attuale XVIII legislatura, vicepresidente della Commissione Ambiente, Territorio e Lavori pubblici. Attivista ecologista, è stata Presidente di Legambiente (2015-2017).

Quali connessioni o contraddizioni vede tra quello che la occupa come individuo (lavoro, ricerche, passioni, ossessioni…) e quello che la pre-occupa come essere umano che fa parte di molteplici collettività, dal locale al globale?

Mi definisco un’ottimista preoccupata. Da ecologista sono preoccupata perché la crisi climatica in atto mostra in modo sempre più frequente la sua gravità, mentre la scienza ci dice che servono azioni radicali e urgenti per centrare l’obiettivo indicato dall’Accordo sul clima di Parigi e confermato dal Patto di Glasgow di contenere il surriscaldamento del Pianeta entro un grado e mezzo. Bisogna tagliare drasticamente le emissioni di CO2 e di tutti i gas climalteranti, arrivare al 2030 con almeno la metà dello sforzo fatto e alle zero emissioni nette entro metà secolo. Ma gli impegni di riduzione delle emissioni assunti dai vari Stati non sono ancora abbastanza e ci stanno portando fuori strada.

Come se non bastasse, di fronte alla guerra della Russia all’Ucraina, la nostra dipendenza dal gas russo ci costringe a sussurrare di fronte alle violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale. Una dipendenza tossica, da cui dobbiamo liberarci al più presto.

In altre parole contro la crisi climatica, come contro la crisi in Ucraina, servono azioni coraggiose, coerenza e velocità, fronti su cui non brilliamo. L’Italia in particolare sconta una certa arretratezza culturale sui temi ambientali di tutta la classe dirigente e ora c’è chi approfitta del conflitto per provare a frenare la transizione, che invece andrebbe accelerata. Non ci aiuta il fatto che ancora non abbiamo affrontato il tema del necessario taglio dei sussidi fossili, né quella che ancora dobbiamo tuttora aggiornare il Piano nazionale energia e clima.

Ed è proprio questo ritardo che oggi ci troviamo a scontare rispetto alla transizione e all’indipendenza energetiche, questioni rese ancor più cruciali e urgenti dall’invasione russa dell’Ucraina. Per fare a meno del gas russo, come del gas di altri Paesi in cui non vengono rispettati i diritti umani, bisogna puntare su un sistema energetico rinnovato, fondato su una generazione pulita diffusa, sul risparmio ed efficienza. Ecco perché è fondamentale accelerare la transizione ed è proprio quello che ho provato a fare con i miei emendamenti al dl Energia-Bollette.

D’altra parte sono anche ottimista perché non possiamo non avere speranza pensando alle future generazioni e mai come ora la transizione ecologica è diventata un obiettivo condiviso. Inoltre dobbiamo essere coscienti che, insieme all’Europa, abbiamo tecnologie, innovazioni e talenti per essere davvero protagonisti della sfida del clima. Che la nostra società, cittadini, imprese e associazioni, sono molto più avanti della politica e sanno che affrontare la crisi climatica sarà la questione dirimente per il futuro. E la guerra in Ucraina deve essere un motivo in più per accelerare la transizione.

“Se tutti in tutto il mondo facessero così, diventerebbe impossibile fare così per chiunque”. “Continuando a fare così, ben presto noi esseri umani non potremo più fare così”. Che cosa le evocano queste frasi?

Mi fanno pensare allo squilibrio nel consumo di risorse naturali tra Paesi Sviluppati e Paesi in via di sviluppo e all’analoga disparità nelle emissioni pro-capite di noi Paesi del Nord rispetto a quelli del Sud del mondo.

Secondo il Rapporto Unicef-Oms, si passa da una disponibilità media di 425 litri al giorno di acqua potabile per un abitante degli Stati Uniti ai 10 litri al giorno di un abitante del Madagascar, da 237 in Italia a 150 in Francia. E in ben 29 Paesi nel mondo, il 65% di abitanti non ha a disposizione il fabbisogno idrico di acqua.

Rispetto alle emissioni climalteranti se in termini assoluti il singolo Paese che emette di più è la Cina, seguita da Usa, India, Russia, Giappone, Germania, Iran, Arabia Saudita e Canada (Italia diciannovesima), le cose cambiano completamente – dicono i dati riportati da “Our world in data” – prendendo in considerazione le emissioni pro capite. In questo caso sul podio c’è il Qatar con 32,4 tonnellate metriche di CO2, seguito da altri emirati del Golfo Persico, il primo stato americano è il Canada (15,5) alla pari con l’Australia (15,5), mentre l’Italia è 61esima a 5,4 tonnellate. In media ogni americano emette 15 tonnellate l’anno, un cinese arriva a circa 7 tonnellate, indiani e indonesiani sfiorano le 2 tonnellate pro capite. Ecco, se tutti emettessimo come un abitante di Qatar, Kuwait, Canada, Usa o Australia, gli Accordi di Parigi resterebbero solo un miraggio. Per fortuna non è così, soprattutto grazie a rinnovabili, efficienza innovazioni e nuove tecnologie è possibile crescere e prosperare senza far lievitare le emissioni.

Stanno finalmente guadagnando visibilità i problemi di sostenibilità biologica, economica, sociale, culturale che pesano sull’esistenza dell’umanità – eppure si tarda e si fatica troppo a prendere e attuare decisioni collettive conseguenti: non è che c’è qualcosa di insostenibile anche nell’organizzazione politico-istituzionale umana?

Credo che le classi dirigenti, anche in democrazia, tendano a preservare il loro potere e i loro vantaggi. Una dinamica che in Italia si salda ad altre tendenze, dalle politiche fiscali scarsamente redistributive e che non intaccano i grandi patrimoni all’incapacità di premiare il merito, bloccando anche l’ascensore sociale. C’è poi anche una questione di genere da considerare, le logiche della competizione politica sono state per lo più determinate dagli uomini per gli uomini. Ma una classe dirigente in prevalenza maschile può affrontare non al meglio i problemi e le sfide del nostro tempo, dalla crisi pandemica a quella sociale economica ed ambientale. Lo ha dimostrato la premier neozelandese, Jacinda Ardern, adottando politiche di contenimento del Covid che sino all’arrivo della variante Delta hanno dato risultati più che buoni. Infine, credo vada rivisto il sistema di governance adottato in ambito Onu almeno per alcuni temi prioritari. Faccio il caso del clima. Se dopo 26 Conferenze delle Parti le emissioni globali continuano a salire è evidente che come è stato pensato il meccanismo non funziona.

Letture per approfondire. Di Rossella Muroni: il blog personale.

Chi volesse reagire a queste risposte, ponendo altre domande a Rossella Muroni, ci scriva a formazione@rinnovabili.it. Alla luce delle sue riflessioni, noi le e vi domandiamo:

Come può l’umanità affrontare l’urgenza dei cambiamenti climatici e, più in generale, dei pericolosi squilibri indotti dagli esseri umani nel sistema-Pianeta, basandosi sugli Stati come attori e sulla negoziazione internazionale come metodo per gestire problemi e creare beni comuni di livello planetario? Quali soluzioni alternative proporrebbe per affrontare il problema di organizzazione globale che lei stessa evidenzia?

Concorda nel descrivere tale problema in termini tanto di insufficiente unità d’azione politica della specie quanto, complementarmente, di insufficiente rappresentanza dei soggetti individuali che la compongono?  

Di fronte all’evidente predominio di ragioni di Stato e di ragioni d’interesse private nella gestione dei problemi internazionali, le azioni dell’Unione Europea e dei suoi singoli Stati membri come possono contribuire a trovare le necessarie soluzioni globali se l’UE manca di reale unità geopolitica e di un effettivo patto costituente interno tra i suoi cittadini?

Anche rispetto alla stessa crisi bellica in Ucraina, non pensa che tali mancanze dell’Unione Europea siano un fattore decisivo di instabilità per l’intera regione confinante e, quindi, anche una causa profonda della difficoltà di costruire una pace strutturale? Fino a che punto, secondo lei, sostituire la dipendenza dal gas russo con quella da altre fonti fossili americane, come di fatto sta per ora accadendo, può realmente aiutare il processo di transizione energetica? Anche qualora si investisse in Italia e in Europa realmente in una strategia 100% rinnovabili, data comunque la necessità di approvvigionamento di risorse materiali extra-UE (ad esempio in termini di terre rare), non pensa che sarebbe interesse UE quello di evitare a tutti i costi una nuova bi-polarizzazione del mondo in termini di Occidente contro Oriente?