di Furio Truzzi
Mi piace iniziare questo editoriale con il titolo di un notissimo film del mai non troppo compianto Massimo Troisi che oggi avrebbe 70 anni. Perché non vi sfuggirà che, se da qualche parte dobbiamo ricominciare, nel numero tre c’è la lettera R e proprio tre sono le R per una sana e urgente politica ambientale di gestione dei rifiuti che parta soprattutto dai comportamenti di ognuno di noi prima ancora che da quelli della comunità. O meglio che i nostri comportamenti individuali ispirino quelli della comunità verso una cultura del consumo più rispettosa dell’ambiente e di una concezione della finibilità delle risorse che ci induca a convenire che è meglio riciclare, recuperare, riusare quando non rinnovare che è il top di gamma delle nostre R ambientaliste e consumeriste.
La storia italiana delle tre R, tralasciamo qui le altre due (riduzione, raccolta) del famoso Decreto Ronchi del 1997, come comportamento virtuoso di gestione del rifiuto, ha fatto nel frattempo passi da gigante in particolare nella R del riciclo ponendoci alla vetta della classifica europea delle nazioni riciclone e questo deve essere motivo di orgoglio e soddisfazione di tutti cittadini, consumatori, imprenditori e istituzioni.
Se dunque il nostro primato nel riciclo non è in discussione e possiamo insegnare all’Europa, qualcosa, forse molto, c’è ancora da fare nel riuso (come gli addetti ai lavori sanno il recupero è fuori discussione visto che è il processo che si colloca a fine vita del ciclo del rifiuto con la sua trasformazione in energia). Parto da queste brevi preliminari considerazioni per parlarvi appunto della R che mi sta a cuore quella del Riuso, questa sconosciuta declinazione poco attuata che ci vede tuttavia ancora in alta classifica, in Europa L’Italia si conferma tra i primi paesi europei per riuso dei materiali nel ciclo produttivo (17,7%), dopo il Belgio (17,8%), Francia (18,6%) e Olanda (29,9%). Per stare nello spirito del tema, “ri-uso” le parole di una nota giornalista che si occupa di economia circolare Ludovica Nati, che scrive: “Quando parliamo di riuso, invece, ci riferiamo alla possibilità di riutilizzare oggetti che non sono ancora diventati scarti o rifiuti: riutilizzando qualcosa abbiamo la possibilità di non far terminare il ciclo della sua vita e, allo stesso tempo, evitare che finisca in discarica. Anche in questo caso la finalità dell’oggetto di partenza può rimanere la stessa o cambiare ed evolvere in qualcosa di completamente diverso: nella seconda ipotesi possiamo parlare, ad esempio, di riciclo/riuso creativo”. Come non essere d’accordo e come non constatare che questa buona pratica, che si incrocia con argomenti spinosi di cui diremo, è ideale per ripartire e consolidare l’idea di una “welfare community” dove i cittadini si mettono in gioco in prima persona tanto e più che nella differenziazione del rifiuto a cui siamo ormai abituati. La pratica del riuso infatti richiede una forte componente soggettiva, una predisposizione e un allenamento, soprattutto una libertà dal condizionamento consumistico-produttivistico ante rivoluzione ecologica. Il riuso è prima di tutto uno stile di vita: riusare fondi di caffè per l’orto, barattoli di vetro per le marmellate e le conserve fai da te, il vestito della nonna in un nuovo capo vintage per la figlia, le scarpe risuolate, i frullatori e gli altri piccoli elettrodomestici riparati, il vecchio scaffale portato a nuovo fino a toccare gli status-symbol dell’era digitale ormai vere appendici emotive di molti di noi: i device. Se dunque la prima grande leva per il riuso sta dentro di noi e richiede un “recupero” delle nostre energie mentali positive e, manco a dirlo, un “riuso” di antiche prassi che solo fino alla precedente generazione erano un vero e proprio stile di vita, che sia anche ispirazione per una priorità educativa o meglio ri-educativa nei nostri comportamenti civici; non dobbiamo sottovalutare l’enorme potenza del sistema produttivo che tarda a comprendere e a volte a ostacolare la cultura del riuso. In una società basata sullo spreco dove financo l’obsolescenza diventa “programmata” e bene hanno fatto le authority antitrust di mezza Europa, anche quella italiana, a sanzionare le industrie che immettevano nel mercato prodotti con fine vita programmata, appare chiaro che il tema del riuso fa poca breccia e solo le imprese più illuminate riescono a farne una policy aziendale della loro responsabilità sociale. Per questo appare più che opportuno uscire dallo sterile dibattito sulla direttiva imballaggi, ben consapevoli che il burocratismo europeo a volte, come il meglio, è nemico del bene.
Se da un lato non possiamo che convenire con le associazioni delle imprese come uno stile normativo più sobrio, che fissi gli obiettivi lasciando poi ai singoli attori, all’autonoma e soggettiva capacità, come raggiungerli sia più utile e opportuno evitando di codificare prassi uniformi per paesi e abitudini difformi, dobbiamo d’altro canto portare alla luce con maggior evidenza questa concezione del riuso che sottende la produzione di beni durevoli e dove anche gli imballaggi, per quanto possibile, seguano questa linea a partire dal barattolo di vetro e se ce ne avanza qualcuno perché non abbiamo più marmellata usiamolo per le conchiglie raccolte durante la vacanza. Per le buste di plastica dell’insalata lavata al momento non abbiamo idee, se voi ne avete sono ben accette, ma non è con un generico ritorno al passato che si risolverà il problema. Il passato serve solo se ci aiuta a vivere meglio il futuro e per questo attingiamo anche dal riuso il nostro avvenire.