di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo
Pamela Giorgi è primo ricercatore presso l’Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa (INDIRE). Si occupa del patrimonio storico culturale, sia nell’ottica della sua formazione, tutela e organizzazione sia nell’ottica di sperimentazioni didattiche atte a valorizzarlo.
Quali connessioni o contraddizioni vede tra quello che la occupa come individuo (lavoro, ricerche, passioni, ossessioni…) e quello che la pre-occupa come essere umano che fa parte di molteplici collettività, dal locale al globale?
Rispondo a questa domanda mettendo in luce un piccolo aspetto, che corrisponde ad un segmento del mio lavoro di ricerca che si è connotato negli anni, in parte, per un crescente lavoro critico-ermeneutico sulle fonti, con uno specifico focus sulla loro declinazione didattica e formativa. In questa prospettiva mi son dovuta inevitabilmente muovere in direzione del progressivo consolidamento di una cultura diffusa legata all’innovazione tecnologica digitale, in relazione al sistema scolastico, cercando di concentrarmi sulle problematiche legate all’uso del Cultural Heritage. Quello che mi perplime ancor oggi è quanto sia più facile immaginare l’inquinamento prodotto dalle prime due rivoluzioni industriali (soprattutto la seconda, quella concentrata sul petrolio), rispetto all’inquinamento (in senso lato) determinato a quella più vicina a noi, cioè la terza, legata all’informatica e alle tecnologie digitali.
Quando, come istituzioni preposte alla formazione di massa e all’alta formazione, ci si pone l’obiettivo di pensare la formazione stessa attraverso e con il digitale (ciò ci appare come inevitabile) se ne discutono e sottolineano soltanto i meriti, ma, a mio parere, non si riflette e non si esplicita pubblicamente abbastanza, quanto questo modello abbia un notevole effetto negativo sull’ambiente, un inquinamento che è solo meno evidente visivamente. L’impatto si registra sin dallo sfruttamento di risorse naturali in maniera non sostenibile, e sappiamo bene quali siano le ricadute politiche e di sfruttamento nei luoghi ove sono le terre rare. La fase industriale, poi, vede l’uso di energie non rinnovabili per alimentare fabbriche e macchinari, e la conseguente immissione nell’atmosfera di smog e sostanze inquinanti. Il continuo rilancio di strumenti più nuovi e potenti, infine, costringe ad una produzione massiccia e aumenta notevolmente i dispositivi sostituiti e difficilmente riciclabili. Quante volte capita di vedere nei depositi degli istituti scolastici veri e propri piccoli cimiteri tecnologici? Infine, il digitale ha un corrispettivo analogico fatto di server e data center, luoghi che consumano molta energia e in cui la manodopera impiegata è spesso sfruttata. Ultimo aspetto, quanto il perseguire queste scelte annienta il ruolo del sistema di istruzione come spazio ‘neutro’ rispetto al mercato, dotato della forza necessaria per contrastare, proprio a livello di educazione di base, la dipendenza progressiva dai device, con tutto quello che ne consegue circa abitudini di vita e al consumo, che riguarda circa il 90-95% di bambini e adolescenti? A livello di decisioni culturali e politiche ci si pensa abbastanza, quando si spinge senza sosta sull’acceleratore dei processi di progressiva digitalizzazione?
“Se tutti in tutto il mondo facessero così, diventerebbe impossibile fare così per chiunque”. “Continuando a fare così, ben presto noi esseri umani non potremo più fare così”. Che cosa le evocano queste frasi?
A mio parere la nostra vita è costituita dall’insieme delle scelte che facciamo. Siamo davvero sicuri di poter scegliere, anche nel ‘libero’ Occidente? O, invece, crediamo di scegliere, ma di fatto seguiamo una corrente invisibile che ci direziona, in modo da evitare di farci sentire esclusi. Si prendono quasi ad ogni istante decisioni cariche di responsabilità, ma si prendono spesso rapidamente e superficialmente, esempio con l’ambizione di essere ‘efficaci/funzionali’ in ambito esistenziale e professionale. Molte di queste azioni sembrano quasi non avere la rilevanza di una scelta, sebbene il modo in cui decidiamo di operare abbia delle conseguenze che sottovalutiamo o delle quali ci sentiamo poco responsabili degli effetti. Faccio l’esempio del dar troppa centralità a strumenti digitali senza valutarne approfonditamente l’impatto, come dicevo prima, o non pensare a quanto tempo è lunga la nostra doccia quotidiana, quanti contenitori di plastica utilizziamo, i mezzi di trasporto per i quali optiamo … Per capire poi in che misura siamo artefici dell’emissione di anidride carbonica e della sofferenza animale dovremmo tener presenti le nostre abitudini alimentari, come regoliamo il riscaldamento di casa, dove collochiamo i nostri risparmi…. e così via.
Lo scegliere implica dunque (banalmente direi) una responsabilità, molto raramente però ne prendiamo atto, almeno finché non ci è chiesto di rispondere per come si è agito. Dovrebbe diventare centrale, invece, a livello di formazione il sottolineare il rilievo della sostenibilità al momento di prendere una decisione quotidiana.
Stanno finalmente guadagnando visibilità i problemi di sostenibilità biologica, economica, sociale, culturale che pesano sull’esistenza dell’umanità – eppure si tarda e si fatica troppo a prendere e attuare decisioni collettive conseguenti: non è che c’è qualcosa di insostenibile anche nell’organizzazione politico-istituzionale umana?
È una domanda molto complessa, alla quale è possibile in questa sede rispondere solo in parte. Credo che vi sia la necessità di un’analisi approfondita dei meccanismi che incidono sull’andamento delle istituzioni pubbliche, che conduca progressivamente al re-individuarne le priorità nella direzione di una progressiva riqualificazione nei termini di una nuova definizione degli obiettivi, che non siano subordinati solo (come sovente purtroppo avviene) alla prevalenza delle logiche di mercato. La politica ha negli ultimi decenni assorbito priorità, linguaggi e modus operandi del mercato capitalista. Credo sia quanto mai emergenziale, invece, superare il tradizionale approccio “incrementale”, in base al quale, ormai storicamente, si è assestata l’azione politico-istituzionale a livello globale, a vantaggio del subentrare di logiche nuove permeate su un umanesimo civile.
Ci aiuti per cortesia, pensando alla sua esperienza, a costruire una risposta collettiva a questa domanda: che cosa è indispensabile sapere e cosa è indispensabile imparare a fare per un essere umano oggi?
Vi rispondo con due frasi di Don Milani, di cui in questo anno si celebra il Centenario dalla nascita. La prima è in “L’obbedienza non è più una virtù” (1965): “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. La seconda si legge in “Lettera ad una professoressa” (1967): “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. Penso che siano elementi imprescindibili da passare a livello formativo per poter sperare in un cambiamento globale.
Letture per approfondire. Di Pamela Giorgi: Storie della scuola: “Narrazioni” per educare al patrimonio culturale e al senso storico, in «Essere a scuola», Morcelliana editrice, Milano, n. 10 del 2021, pp. 83-84; et al. (2020), Il laboratorio di storia: lo studente come o storico alla ricerca delle fonti, in «Didattica della storia-Journal of Didactics of History», Alma Mater Studiorum Università di Bologna, v. 2, n. 1s, pp. 715-734; con A. Anichini (2020), Lo straniero di carta. Educare alla differenza tra XIX e XX secolo, Roma, Tab edizioni. Di Don Milani, Tutte le opere, «i Meridiani», Mondadori, Milano 2017.
Chi volesse reagire a queste risposte, ponendo altre domande a Pamela Giorgi, ci scriva a formazione@rinnovabili.it. Alla luce delle sue riflessioni, noi formuliamo queste ulteriori questioni che valgono anche per tutti i nostri lettori:
È d’accordo sul fatto che la constatazione di una prevalenza delle logiche di mercato nella vita delle stesse istituzioni pubbliche richiede un’indagine sulle condizioni materiali che hanno reso possibile tale esito? In altre parole, può bastare la constatazione dell’esito per comprenderne i motivi su un piano strutturale, di logiche e dinamiche sistemiche, invece che esclusivamente morale, cioè dipendente solo dalla libera scelta di chi ha detenuto posizioni di potere in quelle istituzioni?
Fino a che punto pensa che la riflessione critica sulla “libertà” in Occidente e sulla “corrente invisibile che ci direziona” tocchi in modo specifico il problema della “libertà di informazione” e dell’equità nell’accesso alla produzione e diffusione di informazioni e opinioni?
Si può dire che la sua risposta alla nostra ultima domanda, tramite le parole così fortemente universalistiche e anti-nazionalistiche di Don Milani, implica la necessità di ripensare, con consapevolezza storica ma anche con lucidità circa la situazione presente, la relazione tra funzione educativa pubblica e competenza esclusiva dello Stato nazionale rispetto ad essa?