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Non è tutto “green” quello che luccica: il fenomeno del Greenwashing

Il Greenwashing è una tecnica di comunicazione o di marketing che vuole dimostrare un finto impegno nei confronti dell’ambiente e del pianeta

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via depositphotos.com

di Furio Truzzi

Essere “green” oggi va molto di moda, e come spesso accade quando emerge una novità, alcune aziende ‘cavalcano l’onda’ attraverso pratiche che però a tutti gli effetti sono ingannevoli dichiarando, come in questo caso, di essere eco-friendly quando in realtà di green e di eco non hanno molto.

Parliamo di Greenwashing, una tecnica di comunicazione o di marketing che vuole dimostrare un finto impegno nei confronti dell’ambiente e del pianeta con l’obiettivo di:

  • mostrare più “sostenibile” la propria realtà e guadagnare punti in reputazione e immagine aziendale;
  • catturare l’attenzione dei consumatori attenti alla sostenibilità, che oggi rappresentano una buona fetta di pubblico.

Il termine nasce da un gioco di parole tra green (verde, simbolo di ambiente ed ecologia) e washing (lavare) che richiama il “whitewashing”, letteralmente “dare una mano di bianco” e quindi coprire, nascondere. Per fare degli esempi concreti, un’azienda che pratica il Greenwashing comunica attraverso un’azione di marketing l’impiego di prodotti riciclati o processi produttivi sostenibili, quando in realtà non è così.

A parlarne per la prima volta fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld che lo utilizzò nel 1986 per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani mentre la motivazione reale però era legata al risparmio economico.

Ma con il passare del tempo la pratica del Greenwashing si è intensificata e ad oggi il consumatore deve potersi difendere per non cadere nella trappola.

COME RICONOSCERE IL GREENWASHING

In genere nei prodotti che usano questo tipo di strategia di marketing non vi sono informazioni o dati puntuali che supportino quanto dichiarato. Esistono però dei campanelli d’allarme che dovremmo prendere in considerazione per tutelarci da una informazione fuorviante ed ingannevole.

  • 1° DATI INFORMATIVI NASCOSTI – quando ad esempio nell’etichetta di un capo d’abbigliamento dichiarato 100% riciclabile viene evidenziata solo una delle fibre che lo compongono;
  • 2° NESSUNA DIMOSTRAZIONE – quando viene dichiarato che il prodotto ha determinate caratteristiche sostenibili ma non ne vengono forniti ulteriori informazioni o certificati che ne dimostrano la veridicità;
  • 3° IMPRECISIONE E VAGHEZZA DELLE INFORMAZIONI – le informazioni sono generiche al punto da creare confusione nei consumatori;

In Italia fino al 2014 non esisteva un riferimento legislativo specifico per il Greenwashing, ma il controllo era affidato all’Antitrust sotto la disciplina della “pubblicità ingannevole”. Nel marzo 2014, l’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria ha pubblicato la 58° edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che propone un primo riferimento all’abuso di diciture che richiamino la tutela ambientale. Oggi il Greenwashing in Italia viene considerato pubblicità ingannevole ed è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. In passato sono state già emesse diverse sentenze di condanna per alcune aziende che facevano uso del Greenwashing, tra le acque in plastica come:

  1. Ferrarelle che pubblicizzava la bottiglia a “impatto zero” promettendo la compensazione della CO2 emessa con la tutela di nuove foreste: l’azienda è stata multata perché la definizione di “impatto zero” lascia intendere che la CO2 venga interamente compensata.
  2. San Benedetto è stata multata per avere presentato la sua bottiglia di plastica come “amica dell’ambiente” in diverse pubblicità.
  3. Sant’Anna è stata multata nel 2012 perché nella pubblicità sull’eco-bottiglia riportava pregi ambientali superiori alla realtà.

COME DIFENDERSI?
In primo luogo è fondamentale leggere bene le etichette, poi il modo migliore per accertarsi della veridicità della reale sostenibilità delle aziende in tema di ecosostenibilità sono le certificazioni ambientali (attestati nei quali viene certificato l’impegno di un’organizzazione per il rispetto dell’ambiente).

Il Parlamento europeo inoltre, ha approvato nei giorni scorsi una risoluzione legislativa che introduce un nuovo standard volontario per l’uso dell’etichetta “european green bond”, il primo del suo genere al mondo che ha come scopo principale quello di contrastare e combattere il Greenwashing.
Infine, da uno studio scientifico pubblicato sul tema del “brand della coscienza”, “How to build a conscientious corporate brand together with business partners di Oriol Iglesias , Michela Mingione , Nicholas Ind , Stefan Markovic”, si evince che non è utopico per un’azienda costituire il concetto di brand con una coscienza (ossia un brand maggiormente umanizzato ) che non utilizza la sostenibilità come semplice veste, ma che la integra nella sua strategia e nella sua mission. Nello studio è stato creato un modello scientifico per poter costruire un brand con una coscienza assieme ai propri business partner al fine di evitare il Greenwashing e questo attraverso un allineamento basato su un equilibrio tra i profitti di breve e lungo termine, tra equilibrio di shareolders e stakeholders ed infine con la cocreazione di valore delle imprese e di tutti i suoi stakeholders. Un valore che non viene più creato in modo unilaterale dalle imprese, ma dalle imprese insieme a tutti coloro che partecipano all’interesse dell’impresa (consumatori, fornitori, distributori).