di Linda Maggiori
Secondo il 7° rating di Foodinsider, pubblicato a giugno, risulta che il 47% dei bambini mangia meno della metà del pasto, che viene gettato. Il rifiuto del cibo a scuola non solo è uno spreco di soldi per le famiglie, ma anche un danno all’ambiente, visto che per essere coltivati e cucinati questi cibi hanno consumato energia, acqua e occupato terreno. Lo spreco alimentare è un inaccettabile paradosso mondiale: secondo i dati di un rapporto FAO del 2019, si sprecano il 20% circa del cibo prodotto, causando globalmente l’equivalente di 3,3 Giga-tonnellate di CO2 ogni anno, mentre l’acqua utilizzata è di circa 250 km cubi, la terra occupata dal cibo che poi va sprecato era nel 2007, di circa 1,4 miliardi di ettari.
Naturalmente questo paradosso non riguarda l’intera umanità, ma proprio quelle stesse società più ricche – come la nostra – in cui al contempo cresce il problema della obesità anche infantile: ci si può permettere di sprecare cibo a scuola perché evidentemente è diffusa l’abitudine di saziarsi comunque fuori da scuola con cibo industriale e processato che i bambini sono indotti a desiderare fortemente da un marketing martellante a loro dedicato.
Secondo il progetto “Reduce” finanziato dal Ministero dell’Ambiente, laddove ci sono le cucine interne ci sono meno scarti, e della stessa opinione è lo studio dell’Università di Torino del 2017 che ha motivato lo scorso anno il Comune di Torino a fare una sperimentazione proprio con la riapertura di una cucina per proporre la mensa fresca. Anche mangiare prodotti coltivati nell’orto scolastico aiuta molto i bambini ad apprezzare la verdura, spesso la più “scartata”.
Alcuni comuni hanno introdotto il menu “antispreco”, fatto di ricette semplici, buone, che utilizzano cibo avanzato ma in buono stato, come il pane raffermo o avanzi di parmigiano, o frullato di verdura.
Un altro problema che aumenta lo spreco alimentare, generalizzatosi a causa delle misure restrittive introdotte nella scuola in questi ultimi due anni, che tuttora sta continuando in molte mense, è la consegna del cibo in piatti già pronti, con porzioni uguali per tutti, piuttosto che fare intere o mezze porzioni in base alla richiesta dei bambini.
Il cibo avanzato (non scodellato nei piatti e rimasto nei vassoi) viene, in genere, raccolto dalle Caritas o dalle associazioni locali, per poi essere ridistribuito nelle mense dei poveri o a domicilio alle famiglie bisognose del quartiere.
Però, una volta toccato il piatto del bambino, il cibo diventa potenzialmente “contaminato” e non può essere recuperato tramite circoli virtuosi.
Ciò che tocca il piatto, e non viene mangiato, si butta. E così, capita il paradosso che il bambino a casa viene educato a non buttare il cibo avanzato mentre a scuola viene obbligato a farlo.
Mia figlia di 4 anni un giorno prese un contenitore lavabile e mi chiese: “ma perché non posso riportare gli avanzi a casa, così li mangiamo tutti insieme?”
Mi si accese una lampadina in testa e iniziai a cercare buone pratiche di questo tipo. Così ho scoperto l’Associazione 5 R di Provaglio d’Iseo, che ha redatto un intero vademecum di buone pratiche per ridurre lo spreco a mensa. Ecco le principali:
- Scodellamento di dosi ridotte. Lasciare scegliere ai bambini, in base all’appetito, dose piena o mezza dose, con possibilità di fare il bis. Per evitare che bambini timidi e timorosi non richiedano il bis, saranno gli “scodellatori” a proporlo.
- Child box: ogni bambino avrà un contenitore (portato da casa o fornito dalla scuola) e potrà inserirvi alcuni alimenti avanzati: pane, frutta….
- Evitare in assoluto lo spreco di pane: i panini devono essere piccoli o serviti a singole fette. Il pane “sbocconcellato” non consumato in mensa viene riportato a casa.
- Circuiti caritatevoli: tutto ciò che non è toccato dai bambini e non è scodellato nei piatti viene recuperato tramite circuiti virtuosi di beneficenza.
Anche in altri comuni, in questi anni (tra gli altri ad esempio Como, Milano, Napoli, Vercelli, Follonica, Napoli e Pescara) si è sperimentato il progetto delle school bag o family bag, con sacchetti o contenitori lavabili o compostabili, ma solo per alimenti secchi come pane o frutta. Il discorso è più complicato per le altre pietanze più elaborate e cotte, che finiscono nel cestino.
Ancora non esiste, in tutta Italia, un progetto innovativo, che permetta il recupero anche di questo cibo. È nata però proprio in questo periodo una startup che si occupa di fornire contenitori lavabili per il cibo d’asporto: il suo nome è Recircle.
Sarebbe interessante avviare una collaborazione virtuosa tra questa startup e le mense scolastiche, per ridurre i rifiuti a mensa. Ovviamente il progetto deve coinvolgere l’Ausl locale, i comuni e i comitati Mensa.
I contenitori potrebbero essere dati ai bambini, ed etichettati ognuno col suo nome, riempiti degli eventuali avanzi e riportati a scuola puliti il giorno successivo. Ovviamente l’adesione al progetto resta una libera scelta della famiglia che deve attivamente collaborare e rimandare il bambino a scuola con il contenitore vuoto e ben pulito.
Per maggiore scrupolo, si potrebbe far firmare una liberatoria ai genitori per sollevare la scuola da possibili responsabilità in caso di deterioramento o contaminazioni del cibo fuori dalla scuola.
Alle materne, si potrebbe, in una prima fase di sperimentazione, permettere l’asporto del cibo solo ai bambini che tornano a casa subito dopo pranzo (12.30-13.30), evitando così il problema della conservazione e dell’abbattimento della temperatura. Esattamente come avviene in un ristorante, entro 1 ora dalla somministrazione del pranzo i clienti possono portarsi a casa il cibo avanzato.
Il problema si pone quando i bambini non vanno subito a casa, ed escono alle 16 o 16.30.
Le porzioni avanzate, nei loro contenitori lavabili, con nome e cognome del bambino, potrebbero essere conservate nel frigo delle cucine interne (se la mensa non chiude dopo pranzo), oppure basterebbe una borsa termica in ogni classe, che garantirebbe la temperatura di conservazione fino al suono della campanella.
A livello prettamente legale portarsi a casa il pasto non consumato a mensa, non è vietato, ma neppure appositamente normato.
I ristoranti e le mense lavorative in realtà, secondo la giurisprudenza, sono obbligati a consegnare il cibo non consumato e pagato (più o meno deperibile), se il cliente lo desidera, in contenitori da asporto.
In alcune scuole, comunque, il recupero del cibo avanzato avviene già, normato semplicemente dal buonsenso dei genitori e degli insegnanti, non troppo sbandierato per paura che divieti kafkani corrano a reprimerlo. Come racconta P.C. (che preferisce restare anonima): “Mia figlia va alle primarie e da anni porta a casa quello che le avanza (poco per la verità), nel suo contenitore. Le maestre non ci creano alcun problema e anzi vedono questo gesto come un atto molto responsabile ed educativo, e anche altri bambini lo fanno”.
Se però recuperare il cibo non è possibile, è importante che gli scarti finiscano quantomeno nel cestino giusto: quello dell’organico raccolto dal Comune o ancora meglio in una “compostiera scolastica”. Sappiamo infatti che la frazione organica che finisce in discarica crea grandi problemi di percolato ed emissioni di metano.
Un caso esemplare in questo senso è l’istituto comprensivo di Lecce Stomeo Zimbalo, che ha installato una compostiera collettiva per il trattamento e il recupero degli scarti organici della mensa scolastica. Il compost viene poi usato per l’orto didattico.
“Vera la compostiera” è in grado di trattare fino a 25mila kg all’anno di rifiuti organici convertendoli in compost di qualità, in circa 12 settimane. Installata nel maggio 2020, è stato il primo esempio di auto compostaggio con macchinario elettromeccanico in Puglia. Ovviamente non tutto può finire in compostiera, ma questo progetto ha comunque permesso di ridurre i viaggi da parte della ditta di igiene urbana per raccogliere la frazione organica.
Tra recupero degli avanzi e compostaggio, la scuola può davvero diventare un luogo di economia circolare e sobrietà, anziché di vergognoso e diseducativo spreco.