Rinnovabili

Le risposte di Enrico Bottero

Enrico Bottero
Credits: Daniela Martinelli

di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo

Enrico Bottero (https://www.enricobottero.com) è stato insegnante, dirigente scolastico, ricercatore presso l’Istituto Regionale di Ricerca Educativa del Piemonte e professore incaricato presso l’Università di Torino. Attualmente è impegnato nello sviluppo del Movimento di Cooperazione Educativa e di Convergences pour l’Éducation Nouvelle.

Quali connessioni o contraddizioni vede tra quello che la occupa come individuo (lavoro, ricerche, passioni, ossessioni…) e quello che la pre-occupa come essere umano che fa parte di molteplici collettività, dal locale al globale?

Io da sempre mi occupo di educazione. Sono sempre stato convinto che l’educazione, nella scuola e fuori, rifletta sempre una pedagogia. Che cos’è la pedagogia? La pedagogia non è una scienza, è una pratica teorica (Philippe Meirieu, sulla scorta di Michel de Certeau la chiama “arte del fare”) che, come tutte le pratiche, ha sempre una o più finalità (che sono etico-politiche). Oggi la relazione tra pedagogia e politica si è rotta, ma è solo apparenza perché la neutralità assiologica in pedagogia non esiste. Chi lo afferma occulta le proprie finalità facendole agire sotto traccia. Tacendo le finalità (come si risponde alla domanda: quali giovani vogliamo formare e per quale società?) la maggior parte dei discorsi pedagogici finiscono per perseguire il semplice adattamento alla società così com’è. Questa assenza di trasparenza nasconde l’oblio dei principali problemi della società attuale o scelte che non si vogliono rendere esplicite. Ne cito uno solo: i saperi tecnici che si sono sviluppati negli ultimi decenni hanno prodotto dei cortocircuiti nel processo di trasmissione intergenerazionale e una diminuzione delle capacità di attenzione profonda a vantaggio dell’attenzione superficiale. Tutti sappiamo quanto l’imparare a pensare sia legato all’acquisizione di capacità di attenzione profonda. Il rischio, dunque, è una mutazione cognitiva nelle nuove generazioni con una progressiva distruzione di saperi che fin qui hanno permesso lo sviluppo delle nostre conoscenze. Tutto ciò potrebbe accadere, non perché le nuove tecnologie siano un fatto negativo ma perché è il marketing, una sorta di moderna sofistica industriale, che ne guida la socializzazione. Tra la scuola e un mercato sempre più invasivo si preannuncia così un conflitto ineliminabile: mentre il ruolo della scuola è quello di creare autonomia e indipendenza, il mercato, almeno nella sua forma consumistica attuale, tende a creare dipendenza e ad alimentare la soddisfazione immediata delle pulsioni invece di coltivare l’attesa (il filosofo Bernard Stiegler utilizza a questo proposito l’espressione capitalismo pulsionale). In Italia, nel Ministero dell’Istruzione, nei media e tra buona parte delle élites intellettuali prevale una sorta di totemizzazione del digitale, dipinto come la nuova frontiera della “società della conoscenza”, senza analizzarne in modo critico le possibili tossicità, in gran parte  legate al suo uso da parte delle grandi aziende del web, in primis Google, Amazon, Apple, Facebook, tutte mosse da prioritarie esigenze di marketing e, indirettamente, di egemonia politica da parte dei Paesi di origine (oggi gli Stati Uniti e sempre di più anche la Cina). Oggi si assiste a un inizio di presa di coscienza (v. alcuni interventi dell’authority italiana e delle autorità europee) ma siamo ancora lontano dall’assumere decisioni collettive che propongano valide alternative.

“Se tutti in tutto il mondo facessero così, diventerebbe impossibile fare così per chiunque”. “Continuando a fare così, ben presto noi esseri umani non potremo più fare così”. Che cosa le evocano queste frasi?

Mi evocano la realtà più drammatica di oggi, cioè l’insostenibilità di un modello di sviluppo fondato sul principio dello sfruttamento massiccio e illimitato delle risorse del pianeta. È il principio seguito con coerenza da un capitalismo che ha portato alle estreme conseguenze i suoi postulati iniziali (in una prima fase moderati dall’idea di soddisfare esigenze umane limitate). Quando Zygmunt Baumann scriveva: “Nella fase liquida della modernità il capitalismo ha abbandonato la sfida decidendo di scommettere sulla potenziale illimitatezza dei desideri umani” si riferiva alla mutazione avvenuta negli anni Settanta/Ottanta del Novecento. Per ragioni complesse che non possiamo affrontare qui si è rotto il compromesso che aveva permesso i boom economici. Lì si è palesata la violazione dell’ultima (e probabilmente principale) legge mosaica tramandataci dalla Torà (l’Antico testamento dei cristiani): “non bramare”, che non vuol dire rinunciare al desiderio ma alla cupidigia, alla brama di possesso e di ricchezza. La modestia e la frugalità non appartengono alla cultura diffusa da un consumismo sempre più onnipervasivo. La cupidigia è un principio autodistruttivo per sé e per gli altri. La distruzione dell’ecosistema è una delle sue conseguenze: tutti sappiamo che le risorse sono limitate e che il loro sfruttamento secondo quel modello porterà a un punto di non ritorno nell’alterazione del delicato equilibrio che ha permesso all’uomo di convivere fino ad oggi con la natura. Gli scienziati lo dicono da tempo ma finora le decisioni sono state scarse e insufficienti, e non a caso: tutti gli Stati (sia quelli di più antica industrializzazione che i Paesi emergenti), per ragioni diverse, non vogliono cambiare il modello nei tempi che sarebbero necessari. La maggiore responsabilità ce l’hanno i Paesi ricchi dell’Occidente. Sono loro ad aver inventato ed esportato quel modello, un modello che ora sta mettendo in evidenza tutte le sue contraddizioni, tra crisi climatica e disuguaglianze sociali. Gli altri Paesi hanno semplicemente raccolto l’esempio e dicono all’Occidente: “Ora tocca a noi”. Dopo la caduta del muro di Berlino si è pensato che il capitalismo avesse vinto definitivamente la partita. Si è surrettiziamente identificato il capitalismo con la democrazia e i sistemi liberali mentre non è così. Il capitalismo senza limiti può fare a meno della democrazia e alcuni sistemi (v. la Cina) lo stanno dimostrando. 

Stanno finalmente guadagnando visibilità i problemi di sostenibilità biologica, economica, sociale, culturale che pesano sull’esistenza dell’umanità – eppure si tarda e si fatica troppo a prendere e attuare decisioni collettive conseguenti: non è che c’è qualcosa di insostenibile anche nell’organizzazione politico-istituzionale umana?

Certamente. Quella che voi chiamate “organizzazione politico istituzionale umana” è il modello di sviluppo illimitato senza attenzione ai problemi della collettività e delle future generazioni che segna l’ultima fase del capitalismo di cui ho già detto. Non dobbiamo avere timore di utilizzare il termine “capitalismo” come se qualificasse chi lo usa come sostenitore di un marxismo ortodosso che sembra aver fatto il suo tempo. Conosciamo bene i limiti del marxismo classico, quelli di una concezione provvidenziale della storia, così come quelli del comunismo di voler ottenere un controllo totale sul destino degli esseri umani (con le conseguenti derive totalitarie). Ci siamo però dimenticati che la critica del capitalismo resta valida ancor oggi, anche se in condizioni mutate: non c’è più la società “solida” del fordismo e delle grandi fabbriche, ma resta lo sfruttamento degli uomini e delle risorse del pianeta, oggi più soft e apparentemente meno violento perché esercitato attraverso la persuasione e la costruzione dei bisogni operate dalla macchina raffinata della pubblicità. Come ha scritto Bernard Stiegler, “il marketing pubblicitario non tanto informa (advertising) quanto incita: è una tecnica di incitamento a comportarsi in un certo modo, è cioè una psicotecnologia. Questa tecnica modella un mondo di servizi in cui i consumatori non producono più nulla di quello che consumano – se non come proletari che ignorano tutte le condizioni di ciò che viene prodotto”.

Ci aiuti per cortesia, pensando alla sua esperienza, a costruire una risposta collettiva a questa domanda: che cosa è indispensabile sapere e cosa è indispensabile imparare a fare per un essere umano oggi?

Per impegnarsi a risolvere i problemi ci si dovrebbe muovere su due fronti: l’impegno personale nelle scelte della vita quotidiana e un’azione collettiva affinché si cambino le condizioni che ci hanno portato fin qui. Lorenzo Milani ricordava che cercare di risolvere individualmente i problemi collettivi è egoismo, cercare di risolverli insieme è politica. Con riferimento alla scuola e all’educazione Célestin Freinet aveva già detto qualcosa di simile: «Noi cambieremo la società, ma lottiamo anche per cambiare la scuola, perché si tratta di lottare su due fronti, sul fronte politico e sul fronte culturale. Non comprendiamo che alcuni nostri compagni pratichino un’educazione nuova senza preoccuparsi di ciò che succede fuori della porta della scuola, ma non comprendiamo neppure quegli educatori che si appassionano per l’azione militante e nella loro classe restano dei tranquilli conservatori» (Freinet, 1939).

Nella nostra società individualizzata le persone sono sempre più chiamate a risolversi i problemi da sole. La chiamano “libertà” mentre in realtà spesso si tratta di opzioni con cui si demandano agli individui scelte che dovrebbero essere assunte a livello collettivo. I tradizionali luoghi di elaborazione collettiva delle idee e dei progetti (i partiti, i sindacati, la chiesa) non esercitano più (o esercitano in modo molto limitato) la loro funzione di negoziazione e di costruzione del collettivo, i luoghi di lavoro si vanno frantumando a favore di luoghi distribuiti e del cosiddetto “lavoro agile”, oggi reso possibile grazie alle nuove tecnologie (ancor più in tempo di COVID). Ne consegue un indebolimento del senso del collettivo. Senza senso del collettivo non è facile far nascere grandi movimenti di massa che spingano per un cambiamento del modello di sviluppo. Che fare? Mi limito a dire qualcosa sul ruolo della scuola, il luogo che conosco meglio. Nel corso dell’Ottocento, per ragioni politiche ed organizzative, la scuola è stata organizzata con la divisione dei gruppi in classi omogenee per età, l’insegnamento simultaneo e trasmissivo, la valutazione numerica, ecc. I modelli erano i Collegi gesuiti e le scuole lasalliane. È un modello “clericale” in cui l’allevo è ridotto alla passività e in cui non si agisce concretamente per la costruzione di una cittadinanza democratica. In questo modo non solo è più difficile apprendere (soprattutto per i più deboli) ma soprattutto è impossibile cominciare a costruire il senso della collettività solidale e della cittadinanza. A partire dalla fine dell’Ottocento alcuni esponenti delle pedagogie attive hanno cercato di modificare l’organizzazione delle attività scolastiche tenendo conto della necessità di fare della classe una società in miniatura. Lo hanno fatto solo in alcune scuole, spesso private (anche per le difficoltà di realizzarle nel settore pubblico). La scelta di fondo è stata quella di centrare le attività sul “fare insieme”. Non è infatti sufficiente “vivere insieme” raggruppando un gruppo di persone diverse in una classe per costituire un collettivo. Per “vivere insieme” bisogna “fare insieme”. Per fare “società” è necessario che ogni membro del gruppo abbia la possibilità di costruire praticamente qualcosa con gli altri. È una possibilità a cui deve essere formato fin da piccolo. Mentre dichiara l’adesione al gruppo deve cioè sentirsi valorizzato nella sua identità. Gli esempi del “fare insieme” (pedagogia del progetto) sono molti: organizzare uno spettacolo teatrale, un evento musicale, allestire uno spazio comune, organizzare un’uscita, redigere un giornale, ecc. Se gran parte dell’insegnamento diventa cooperativo, mentre si lavora sulle conoscenze in modo attivo si opera anche per la costruzione di “istituzioni”. È anche necessario organizzare nella scuola spazi organizzati di parola e di discussione in cui gli allievi siano i protagonisti di alcuni aspetti dell’organizzazione delle attività. Non sarebbe difficile farlo (alcuni insegnanti lo fanno, come quelli del Movimento di Cooperazione Educativa) ma le resistenze sono ancora molte, nella scuola (tuttora organizzata con un’autonomia degli istituti che ha promosso la competizione più che la cooperazione), nell’Università e nella società in genere. È necessario comunque impegnarsi, coinvolgendo anche i genitori e la società. Senza perdere la speranza, la qualità più importante di ogni educatore.


Letture per approfondire. Di Enrico Bottero: Il metodo di insegnamento, Milano, Franco Angeli, 2014; Lo Smarrimento della ragione e il compito dell’educazione, 2020; Pedagogia cooperativa. Le pratiche Freinet per la scuola di oggi, Armando, Roma 2021. Di Bernard Stiegler: Reincantare il mondo. Il valore spirito contro il populismo industriale, Orthotes, Napoli-Salerno 2012; Pharmacologie du Front National, Flammarion, Paris 2013. Di Paolo Legrenzi: Frugalità, Il Mulino, Bologna 2014.


Chi volesse reagire a queste risposte, ponendo altre domande a Enrico Bottero, ci scriva a formazione@rinnovabili.it. Alla luce delle sue riflessioni, noi gli e vi domandiamo:

Fino a che punto e sotto quali aspetti concreti anche nel cosiddetto Occidente il capitalismo e la democrazia sono già in rotta di collisione?

Ci sono fatti strutturali che alimentano la cupidigia sfrenata oppure ritiene si tratti di scelte e intenzioni deliberate?

Siamo certi che l’unico o comunque principale attore istituzionale su cui puntare per cambiare il modello siano gli Stati?

E se l’organizzazione stessa dell’umanità, centrata com’è sulla divisione in Stati sovrani, fosse parte del modello da cambiare?

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