Rinnovabili

La sofferenza del grande padre Mediterraneo

mediterraneo

di Fernando Giancotti

Il grande padre Mediterraneo ha avuto molte figlie. Le nostre civiltà.

La sua travagliata giovinezza lo vide dapprima lingua dell’Oceano di Tetide, insinuata nella trasmutazione di Pangea assumente molte diverse forme. Si chiuse poi a ovest per movimenti tettonici milioni di anni dopo, isolato dal grande oceano, e in pochi millenni evaporò. Battito di ciglia sulla clessidra del pianeta Terra. Così mostrò al cielo i suoi abissi e infinite distese di sale, detriti e resti dei suoi abitanti, per poi rinascere ad un nuovo inimmaginabile irrompere d’acque, spaccata la terra ove oggi è Gibilterra.

Ha quindi atteso per altri milioni d’anni depositando, erodendo, vegetando, chiarendo le sue acque, scavando insenature, scolpendo i suoi monti e levigando i loro frammenti sino a granelli di lunghissime spiagge. Aperto all’oceano con unico stretto, ripopolato da brulicante, vitalissima fauna, ha dipinto i suoi straordinari colori in una autonoma, vergine vita. In milioni di anni si è trasformato. Multicolore, diverso, odoroso, frastagliato e ricchissimo universo marino, vergine, in attesa. Che nell’immenso continente al suo sud scimmie bipedi iniziassero a cacciare, a mutare, a irradiarsi attraverso migliaia di generazioni verso est e poi ovunque. In attesa che la nuova, abile specie che si autodefinirà “sapiens” iniziasse al suo oriente a coltivare fertili terre tra i due grandi fiumi, ad addomesticare animali e a costruire civiltà. Per poi fluire lungo le sue sponde e lentamente contaminare le rade popolazioni che l’avevano preceduta, ancora immerse e indistinguibili nell’ecosistema.

Quei contatti hanno generato altre civiltà, che il Mare Mediterraneo e le terre accanto sorelle hanno cresciuto come figlie, ospitato con clima gentile, nutrito con abbondanza di cibo, collegato con rotte preziose. Civiltà che hanno costruito città, scavato porti, steso lunghe strade, disboscato la immensa foresta che lambiva le sue rive, accumulato ricchezze. Civiltà diverse, che sin dall’inizio si sono predate a vicenda, combattute, massacrate, fino a colorare di rosso sangue vaste distese di mare e di terre. Che tornavano però subito allo stato originale.

Finché hanno imparato a produrre su scala industriale, moltiplicando enormemente i numeri e dilagando ovunque. Cementificando, asfaltando, plastificando, riempiendo di immondizie, consumando fino a scarsità le acque affluenti, riducendo le terre a coltura, sporcandone l’aria al di sopra e mutandone natura, colore, calore. Al di là di ogni precedente era. Senza poter tornare indietro. Quelle civiltà hanno imparato anche a uccidere su scala industriale: tutto insieme, come nelle grandi guerre, o un po’ alla volta, come accade oggi.

Così, oggi come mai nella lunghissima storia del nostro benevolo padre, vediamo la sua fauna rarefarsi, le sue acque costellate di onnipresente plastica, fino nel corpo delle sue creature, lunghe distese delle sue coste imbruttite da cose dell’uomo, il suo clima attraversato da tempeste e tornado mai visti prima. Conflitti virulenti e incancreniti ne orlano le coste e anche quelli che non sono combattuti con le armi generano danni profondi. Vediamo masse di disperati attraversarlo, in fuga da guerre e povertà. Non percepiamo quasi più invece la loro sofferenza e la morte che in esso trovano, per quanto sono frequenti, “normali”. 

Eppure il nostro padre Mediterraneo ci affascina con la sua sopravvissuta bellezza, ci assicura scambi, lavoro, svago, natura e sa nutrire il nostro profondo attraverso il legame antichissimo che abbiamo con lui. Ancora oggi la vita, la ricchezza e l’identità dei popoli che esso collega dipendono tanto da lui e così sarà nel futuro, secondo le costanti profonde che legano le nazioni alla geografia, attraverso secoli e regimi diversi.

I mutamenti climatici e ambientali che stiamo vivendo compongono e amplificano i molti altri problemi che abbiamo generato, in dinamiche tali da poter impattare drammaticamente la crescita economica, la stabilità politica, la sicurezza dei nostri popoli. 

Dobbiamo allora fermarci, comprendere, riprendere il filo delle antiche narrazioni e declinarle in un nuovo Discorso, un λόγος unificante e arricchente, come lo fu il Mare Nostrum per le civiltà che in esso vivevano, ma condiviso e sostenibile. Poiché solo ciò che è condiviso può essere sostenibile. Un Discorso che deve fondarsi sui dati della scienza, sugli approfondimenti degli specialisti, ma che non deve perdere la visione d’insieme, con al centro l’uomo e i valori che lo accomunano pur nelle diverse culture, religioni, etnie.

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