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Giovani e futuro nel Rapporto 2019 della Fondazione Visentini

Giovani e futuro nel Rapporto 2019 della Fondazione Visentini

(Rinnovabili.it) – Giovani senza futuro? Il divario generazionale pesa come un macigno sullo sviluppo del Paese, penalizzando i giovani. La puntuale ricerca della Fondazione Bruno Visentini Il divario generazionale e il reddito di opportunità – III Rapporto 2019 presentato alla Luiss ha monitorato l’Indice di Divario Generazionale (GDI), ovvero il tempo che serve a un giovane per raggiungere l’indipendenza economica. I risultati sono allarmanti, ma il Rapporto indica le strade da percorrere per superare il gap. Ne parliamo con il prof. Luciano Monti, curatore del Rapporto 2019.

 

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I dati emersi dal Rapporto 2019 impongono sicuramente una riflessione sui giovani, ma anche sul futuro stesso dell’Italia. Sono state avanzate delle proposte concrete e realizzabili. Ritiene che avranno un seguito?

A parte sottolineare il fatto che quando ci sono le proposte concrete la politica latita, perché una proposta concreta impone una risposta concreta, positiva o negativa, il follow-up noi lo abbiamo già organizzato: questo evento avrà un seguito nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile che l’Asvis organizza ogni anno dal 20 maggio al 5 giugno. L’evento nazionale del goal 8 (incentivare la crescita economica) si terrà in questa università e avrà come tema il patto per l’occupazione giovanile, che peraltro ricordiamo non è un impegno che prendiamo noi della Fondazione Visentini ma che ce lo richiedono le Nazioni Unite ed è un target al 2020, quindi l’anno prossimo dovremmo realizzarlo. Da gennaio a giugno lavoreremo con le parti sociali (Confindustria, Cgil, Cisl e Uil) per ragionare su una piattaforma di Patto e poi presentarlo all’eventuale governo disponibile ad ascoltarci affinché lo possa inserire nella Finanziaria del 2021, le cui prime mosse saranno proprio in quel periodo. Dopodiché, l’appuntamento per fare il bilancio sarà a dicembre. L’obiettivo è avere entro giugno una piattaforma condivisa almeno con le parti sociali e le forze politiche.

 

Le parti sociali possono fare una certa pressione sulla politica?

Sicuramente, oggi abbiamo incassato il loro “nulla osta”: benché con declinazioni diverse, hanno detto sediamoci a un tavolo per trovare un accordo. Noi non partiamo con una crociata dicendo che vogliamo per forza il Reddito di Opportunità, è uno dei tanti strumenti che si possono mettere in campo: partiamo da uno, dopodiché lavoriamo sugli altri.

 

Con Reddito di Cittadinanza e Quota 100 si è verificato il supposto ricambio generazionale o sono aumentate le iniquità e il disagio sociale dei giovani? E in cosa si differenzia il Reddito di Opportunità – inizialmente denominato “Una mano per contare” – di cui parla il Rapporto 2019?

Il Rapporto di quest’anno per la prima volta affronta la questione di Quota 100 e del Reddito di Cittadinanza, però vorrei precisare che non lo fa rispondendo alla domanda se sono meno efficaci, ma se sono meno generazionali. In entrambi i casi non è un’opinione, ma i dati disponibili ci dicono che Quota 100 è tutta destinata ai neopensionati e che la grande maggioranza dei beneficiari del Reddito di Cittadinanza sono over 35: quindi entrambe non sono misure generazionali. Dopodiché si valuta se considerarli antigenerazionali. Nel caso di Quota 100 è evidente che è una misura antigenerazionale perché favorisce una fascia di popolazione ma il debito lo pagheranno quelle successive. Sul Reddito di Cittadinanza non siamo ancora in grado di dare una valutazione, perché dipende dall’impatto che avrà sull’economia complessiva; ricordo comunque che il Reddito di Cittadinanza è una delle forme possibili che l’Europa ci indica come pilastro sociale, ed è in qualche modo in linea con i modelli di reddito universale o reddito minimo. La differenza tra il nostro Reddito di Opportunità e il Reddito di Cittadinanza è che uno non esclude l’altro, ovvero sono integrativi, possono essere in campo entrambi. Il Reddito di Cittadinanza muove denaro ed è generale, non solo per i giovani; il nostro invece muove beni e servizi, non denaro, cioè non ti diamo soldi per non fare nulla ma ti diamo la possibilità di comprare dei servizi per la tua formazione, per la tua casa, per la tua famiglia. L’altra differenza è che il Reddito di Opportunità è un reddito che dà grande autonomia ai giovani, che possono decidere come e quando attivarlo in un tempo molto lungo, dai 16 ai 35 anni. In sostanza hanno ventimila euro di beni e servizi che compreranno solo quando riterranno di averne bisogno.

 

Il Goal 8.6 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è la riduzione dei NEET entro il 2020. Ad oggi sembra un obiettivo utopico. Finora sono state adottate politiche di lungo periodo e una visione sistemica in grado di ridurre situazioni di svantaggio e di disagio dei giovani?

La politica ha dato negli ultimi anni delle risposte a questioni emergenziali. Quindi andiamo indietro anche ai governi precedenti, non è una lacuna solo di questo governo l’affrontare un tema per liquidarlo temporaneamente. Il problema dei NEET non si risolve riducendone il numero di centomila unità, va bene farlo ma non è un provvedimento strutturale. Bisogna creare altre condizioni, come il Reddito di Opportunità. La persona a rischio NEET la devo prendere quando ancora non è un NEET, per esempio quando abbandona prematuramente la scuola, e abbiamo dati inquietanti sul Mezzogiorno. L’immobilismo sociale è ancora molto forte al Sud, come l’inoccupazione delle donne: bisogna creare le condizioni perché questo cambi, ad esempio aumentando gli asili nido, come suggerisce l’Ocse con estrema chiarezza. Questi sono gli interventi che elimineranno alla lunga i NEET, altrimenti con operazioni spot ne ridurrò centomila, ma ne nasceranno altrettanti.

 

Nel Rapporto 2017 era stata avanzata l’idea di una Legge Quadro per i giovani che proponeva interventi per affrontare il divario tra over e under 35. Cosa è stato recepito di quella proposta?

Nulla, tanto che continuiamo a ribadirla con forza. Oggi abbiamo 33 misure considerate generazionali: da un lato è un bene perché sono 3,5 miliardi dedicati ai giovani, ma da un altro è un male perché tante misure disorganiche non risolvono il problema. Quindi la Legge Quadro, che sarà il primo prodotto del Patto per l’Occupazione giovanile, prevederà degli strumenti tra loro coordinati. È stato sottolineato anche nel Rapporto che il problema della casa, della famiglia, del lavoro, della mobilità, dell’abitazione nelle aree interne dei borghi sono parte di uno stesso problema. Non basta fare una norma per incentivare ad andare nei borghi e non c’è un’operazione collegata alla scuola. Se non difendi le scuole nei borghi, i borghi sono morti. Una Legge Quadro deve prevedere interventi su più settori: trasporti, scuola, mobilità, innovazione, banda larga.

 

Innovazione tecnologica, intelligenza artificiale e posti di lavoro. Il sentimento prevalente è di apprensione, anche se con molte probabilità si creeranno lavori che ad oggi ancora non esistono. I nostri modelli di formazione sono in linea con quello che il mercato chiede ai giovani? Ad esempio, il 5G è un tema caldo, ma i giovani sono preparati a gestirlo? Le potenzialità lavorative ci sono, ma il digital mismatch è un dato di fatto.

I nostri giovani vengono considerati fortemente digitalizzati, ma ritengo che in questo campo siano sopravvalutati. Innanzi tutto sono abituati a lavorare con le app. L’applicazione, che da un lato ci semplifica la vita, dall’altro ci allontana sempre di più dalla realtà, dal saper fare le cose. Facciamo l’esempio del navigatore: quanti di noi oggi sarebbero in grado di orientarsi senza un navigatore in macchina? Io, per esempio, non ci riesco più. Quindi abbiamo perso la capacità di orientamento. Perdere la capacità di fare delle cose dall’inizio alla fine è molto pericoloso; questo vuol dire che vanno bene le stampanti 3D, va bene il 5 G, ma bisogna riportare nella formazione dei nostri giovani la capacità di rimanere attaccati ai fatti, alle cose concrete. Trovo allarmante che secondo il Rapporto Ocse Pisa i nostri ragazzi – addirittura 1 su 20 – non riescono a distinguere un’opinione da un fatto: vivono il mondo reale e quello virtuale come un’unica dimensione. È un’opportunità fantastica, ma bisogna metterli in condizione di discernere tra un fatto e un’opinione, tra una cosa reale e una virtuale. È quello che manca e che assolutamente dovrebbero imparare a scuola. Ma credo anche che dovremmo riportare a scuola i genitori.

 

Negli ultimi anni si è accentuato il fenomeno migratorio dal Sud verso il Centro-Nord e da qui verso l’estero: questa mobilità forzata ha fatto tramontare l’aspirazione al posto fisso?

Certo, questo è confermato anche nei dati del Rapporto 2019. I giovani del Sud – sono stati intervistati quelli dai 14 ai 19 anni – si sono dimostrati sorprendenti. Alla domanda “Ma tu come ti vedi da grande?” c’erano tre possibili risposte: dipendente, lavoratore autonomo e imprenditore. Soltanto un terzo ha scritto dipendente: il fenomeno Checco Zalone non esiste più.

 

Il Rapporto 2019 parla di “spread sociale”: quanto pesa a livello nazionale la differenza tra le varie aree del Paese?

È un po’ difficile da spiegare. Lo spread, come quello economico, è la differenza tra due indicatori. Infatti ho paragonato un giovane del Sud a un BTP italiano e un giovane del Nord a un Bund tedesco. Se il Bund tedesco peggiora le sue condizioni e anche noi peggioriamo le nostre, vuol dire che c’è una congiuntura internazionale e che il sistema Paese mette in difficoltà i suoi giovani a Nord e a Sud: i due dati tendono ad andare un po’ in parallelo, anche se il Bund ha un valore maggiore perché il BTP è meno appetibile e si attesta a 450 punti base. Però abbiamo registrato negli ultimi due anni un’impennata dello spread, quindi vuol dire che a pari condizioni economiche mondiali o europee il giovane del Sud si sta allontanando sempre di più da quello del Nord, e questo significa che il Nord ha intercettato la ripresa ed è agganciato all’Europa, il Sud no: è quella che si chiama deriva. Uno spread a 450 punti è inaccettabile. La gente litiga e i governi cadono per lo spread finanziario ma nessuno si preoccupa dello spread sociale dei giovani.

 

Il Goal 5 dell’Agenda 2030 intende raggiungere l’uguaglianza di genere e il Target 5.5 mira alla piena partecipazione e a pari opportunità di leadership per le donne nella vita politica, economica e pubblica. Grazie alla legge Golfo-Mosca, appena prorogata, si è raggiunto il 30% di presenza femminile nei CdA. Fa riflettere che serva una norma per obbligare al rispetto della parità di genere, quando sarebbe garantita dall’art. 3 della Costituzione. Quali posizioni emergono nel Rapporto a questo proposito?

Nella versione originale del GDI (l’Indice di Divario Generazionale) non c’era la parità di genere, l’abbiamo introdotta due anni fa con due indicatori principali: gender pay gap, cioè la differenza di stipendio a parità di posizione uomo/donna e il tasso di occupazione e di imprenditorialità femminile. È uno dei 5 indicatori che concorre a tenere alto l’indicatore del divario, ed è uno dei peggiori.

 

La Generazione Greta è scesa in piazza per l’ambiente, ma quali sono le ripercussioni economiche di questo divario? I giovani sono attenti anche alla responsabilità sociale delle imprese?

Ho provato a spiegarlo con l’immagine dell’albero. È normale che i giovani vadano in piazza a protestare perché vedono minacciato il capitale naturale, è una percezione che hanno tutti giorni. Non è che non sono attenti al problema economico-sociale, è che non ne percepiscono l’urgenza adesso; è normale che non vadano in piazza per il lavoro, perché ancora non lo desiderano. Bisogna sensibilizzarli già nella scuola non solo alla tutela del capitale naturale, ma anche al capitale sociale e al capitale umano. Il vero successo dell’Agenda 2030 è di avere 17 indicatori: la vera sfida è far capire a tutti che la sostenibilità non è un concetto solo ambientale, ma riguarda la sostenibilità umana. Nella Laudato si’ Papa Francesco ha detto che dove c’è degrado ambientale c’è anche degrado umano. Pensare solo all’ambiente non basta, sennò i ragazzi si troveranno in un prato bellissimo con un albero fiorito, ma rimarranno all’ombra della pianta senza cogliere il frutto più importante: la competenza per entrare nel mercato del lavoro.

 

Albero

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