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Francesca Giovanelli: generazione Z e assenza di garanzie

Francesca Giovanelli ha accettato la nostra sfida e risposto alle nostre domande. Scopriamo la sua prospettiva sui problemi che abbiamo in comune e facciamone tesoro per interrogare criticamente noi stessi e il mondo.

Francesca Giovanelli

di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo

Francesca Giovanelli è un’attivista e giovane professionista che fa parte dell’associazione Energy Leaders in Italy for Environment and Sustainability.

Quali connessioni o contraddizioni vede tra quello che la occupa come individuo (lavoro, ricerche, passioni, ossessioni…) e quello che la pre-occupa come essere umano che fa parte di molteplici collettività, dal locale al globale?

Condivido con molti dei miei amici e conoscenti alcune preoccupazioni che sono globalmente tipiche della mia generazione, detta Gen Z.

Prima tra queste è il mare presente tra il “dire” ed il “fare” sul tema cambiamento climatico. Da un lato, i mass media e gli esperti parlano in toni ansiosi e pessimisti del nostro futuro; dall’altro ciò che viene eseguito dall’industria e dai governi segue un ritmo lento e frammentato che confonde il consumatore ed il cittadino sulle priorità della società contemporanea.

Il nome coniato per questo stato d’animo è “Climate Anxiety”, ma ciò che mi spaventa di più è riuscire a compiere solo scelte individuali per l’ambiente, di per sé insignificanti, senza che il mio diritto al futuro sia realmente garantito dal sistema nel quale vivo, quindi lo definirei “No Guarantee Anxiety”.

Un’altra contraddizione che sento è la tendenza a credere che le nuove tecnologie risolveranno i problemi d’inquinamento al nostro posto.

Penso che esse siano un’indispensabile componente della ecologia che stiamo costruendo, ma ciò che manca è un solido fondamento di comportamenti condivisi che vengono effettuati coscientemente dalle persone italiane. Un buon esempio sono le automobili elettriche, le quali sono considerate migliori per l’ambiente, ma sono ancora ricaricate usando elettricità prodotta da fonti non rinnovabili.

Ci sono anche molte iniziative e comunità positive e informate all’interno del mix, come questa rivista, che mi portano a pensare in modo più positivo alla comunità.

Il gruppo non è solo la somma dei suoi componenti.

“Se tutti in tutto il mondo facessero così, diventerebbe impossibile fare così per chiunque”. “Continuando a fare così, ben presto noi esseri umani non potremo più fare così”. Che cosa le evocano queste frasi?

Penso che sia necessario avere un pensiero volto alla conservazione del patrimonio condiviso piuttosto che al proprio “orticello” personale, senza però cadere nel completo pessimismo. Molte persone usano frasi di questo tipo scrollando le spalle, come davanti a un evento inevitabile, perché non vedono soluzioni al problema sociale troppo complesso.

In primis, penso sia vero che la società occidentale vive un’epoca di benessere grazie allo sfruttamento delle risorse native dei propri e di altri stati, oltre allo sfruttamento di lavoro sottopagato.

Lo sfruttamento è così radicato all’interno dei meccanismi di produzione, che è diventato molto difficile per il consumatore capire quali beni siano prodotti eticamente o meno, pensando erroneamente che la maggior parte di quelli disponibili rispetti questo criterio.

Il controllo della filiera e le blockchain sono strumenti importantissimi per gli accertamenti, che permetteranno una trasparenza a tutti i livelli, fino all’ultimo del consumatore.

Penso che la sensibilità ai temi, influenzata da tanti tipi di stimoli, stia crescendo nella maggior parte della popolazione; la sfida principale della transizione ecologica sarà di orientare correttamente questo stimolo collettivo verso soluzioni positive, che vadano a migliorare la qualità della vita per tutti.

Stanno finalmente guadagnando visibilità i problemi di sostenibilità biologica, economica, sociale, culturale che pesano sull’esistenza dell’umanità – eppure si tarda e si fatica troppo a prendere e attuare decisioni collettive conseguenti: non è che c’è qualcosa di insostenibile anche nell’organizzazione politico-istituzionale umana?

Credo che l’organizzazione politico-istituzionale democratica segua un sistema il cui obiettivo è di portare giustizia, esso paga il prezzo di tempi decisionali lunghi, che coinvolgono così tanti attori da complicare la trattativa fino a livelli ai quali si perde l’obiettivo iniziale prefissato.

Non so se l’attuale organizzazione di stato è pronta ad affrontare un problema sistematico come il cambiamento climatico senza dover anch’essa, in una certa misura, cambiare.

Le priorità che i governi si danno mal rispecchiano l’urgenza che ci troviamo ad affrontare, ipotesi che trova evidenza nel magro risultato della COP26, che ha perso una parte del valore della propria istituzione nella scarsità dei suoi risultati.

D’altra parte, abbiamo organizzazioni politico-istituzionali autoritarie la cui velocità esecutiva è sorprendente ma non sono particolarmente interessate alle tematiche della sostenibilità e non si vincolano alla loro risoluzione.

Se si riuscisse a trovare un compromesso tra etica, moralità e velocità dei procedimenti, riusciremmo ad affrontare le problematiche gravi, che hanno effetti sull’immediato, meno estemporaneamente.

Ci aiuti per cortesia, pensando alla sua esperienza, a costruire una risposta collettiva a questa domanda: che cosa è indispensabile sapere e cosa è indispensabile imparare a fare per un essere umano oggi?

L’argomento è molto vasto, ma è vero che per risolvere un problema sono necessarie capacità inerenti ad esso, che ci diano strumenti per riuscire a vederne possibili soluzioni.

 Suddividerei i contenuti in conoscenze e competenze.

Le conoscenze, che sono i contenuti teorici dei quali necessitiamo, nel mondo contemporaneo sono in primis di tipo tecnologico; quindi, è necessario capire come funzionano le tecnologie che usiamo nella vita di tutti i giorni, dagli elettrodomestici ai computer e gli smartphone, e gli impatti (positivi e negativi) che hanno sull’ambiente e la società. Se pensiamo che la tecnologia sia un mezzo che snatura le relazioni umane, a mio parere ci sbagliamo di grosso, perché sta proprio cambiando e stringendo il tessuto sociale in modo diverso da quanto succedeva in passato.

Permette un confronto continuo che ci fa sentire meno soli, i problemi diventano più condivisi e accessibili, facili da risolvere, con tutorial e lezioni gratuite.

Il secondo tipo di conoscenze fondamentali, sono quelle geografiche, culturali e geopolitiche, che ci permettono di capire e orientarci all’interno del nostro mondo senza sentirci “alieni” e comprendendo meglio il comportamento degli altri. Credo che si possa imparare, anche in età adulta, il rispetto verso il prossimo, la sua cultura e punto di vista e che non sia una caratteristica necessariamente innata.

Un altro importante set di conoscenze è relativo alla conservazione ambientale e al risparmio di risorse. Se impariamo a togliere gli eccessi che ci fanno spendere (tempo, denaro, risorse) dalla nostra vita senza portare reali benefici, possiamo investire su ciò che ci porta reali vantaggi a lungo termine.

Le competenze che dovremmo sviluppare meglio sono invece, innanzitutto, quelle comunicative, perché la relazione con gli altri è una componente molto importante dell’essere umano, come lo sono il dialogo e la mediazione.

Dovremmo inoltre trovarci nelle condizioni di mettere in gioco le nostre conoscenze teoriche, accessibili, sfruttandole al meglio, in modo da riuscire a realizzarci. L’educazione dovrebbe mettersi al passo con i tempi in diversi ambiti e insegnare ai ragazzi di oggi competenze che siano felici di applicare, senza sentirsi chiusi nelle scuole inutilmente.

Sarebbe bello se l’apprendimento e la messa in pratica diventassero un processo continuo nel quale non ci sono interruzioni né strade chiuse.

Chi volesse reagire a queste risposte, ponendo altre domande a Francesca Giovanelli, ci scriva a formazione@rinnovabili.it. Alla luce delle sue riflessioni, noi formuliamo queste ulteriori questioni che valgono anche per tutti i nostri lettori:

Le tue osservazioni sui comportamenti abituali delle persone si declinano in termini di “italiani” e di “occidente”: fino a che punto si tratta di categorie di analisi geografico-socio-culturale realmente pertinenti per comprendere e affrontare il problema?

La riflessione critica sulla “lentezza” dei sistemi democratici presuppone il fatto che i problemi siano già ben identificati, le soluzioni siano sostanzialmente disponibili ma manchi appunto una capacità decisionale e di realizzazione adeguata: ma problemi e soluzioni sono realmente oggettivabili in modo assoluto? Quel che identifichiamo come problema e le soluzioni che di conseguenza possiamo escogitare non dipendono da ciò che poniamo come valore, come fine, come “bene” e come “male”? Il dibattito e le scelte su questi aspetti possono realmente dirsi universali e democratici?

Non è che la “lentezza” percepita dipende invece dall’assenza di democrazia, ad esempio nelle relazioni internazionali?