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Essere servitori civili

Essere servitori civili
via depositphotos.com

di Nicola Pirina

C’è un’espressione inglese, civil servant, che da sempre mi colpisce perché è uno dei rari casi in cui un termine anglosassone riesce in maniera compiuta ad esprimere un concetto in maniera più forte che non l’italiano, dove servitore civile nel suo sostantivo è mal interpretato.

L’essere servitore civile implica infatti ben più che il rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione, a prescindere dalla formula di diritto nel quale è incardinato o dalla temporaneità.

Secondo i dizionari, in sintesi, è tale chi pone la sua competenza professionale e il suo senso civico al servizio della collettività, all’interno o all’esterno di strutture pubbliche.

Per l’articolo 98 della nostra Carta Costituzionale i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione.

Da un lato.

Dall’altro mi pare che il tema relativo all’immane corpo delle risorse umane impiegate nei vari sistemi pubblici tenda ad essere sottovalutato, non solo dalla ricerca pubblica.

Vero è che tanti sono gli slogan, ancor di più i proclami, ma pochissimi i fatti.

Chi è concentrato sulle questioni diplomatiche trascura le politiche, chi sulla sicurezza non si cura dello sviluppo e così via.

Informazioni, statistiche e dati missing in action.

Poco attraenti perché non sufficientemente strategici? Ovviamente l’invito dello scrivente è a non perpetrare errori. Se c’è un’area veramente strategica in qualsiasi organizzazione sono le risorse umane.

Dai mandati globali dell’ONU alla tenuta del più piccolo dei comuni, i servitori civili sono assolutamente fondamentali per le attività quotidiane, altrimenti rimaniamo senza capacità di fornire risultati.

Ma debbono essere gli stessi servitori a discutere i propri programmi di cambiamento magari poi auto attribuendosi gli indicatori di risultato da cui dipendono le relative premialità? Dalla formazione alla retribuzione, dal cambiamento culturale alla mobilità, tutto quel che riguarda gli aspetti relativi al patrimonio di competenze a busta paga pubblica è sempre in balia dei venti. Tutti sbandierano il tema nel mentre che il sindacato della funzione pubblica governa ed impone blocchi e spauracchi.

E nulla cambia, o poco. Specie per i cittadini e per la tutela del bene pubblico in quanto tale. Il 2020 non è stato un anno normale, nè lo sarà il 2021, c’è il ragionevole sospetto che neanche il prossimo triennio sia rose e fiori.

Quali sono pertanto le riforme su cui si stanno concentrando gli alti dirigenti dei governi?

Mancano: leadership collaborativa, politiche dedicate, forza e sequenzialità nelle logiche, approcci aziendalistici, architettura e investimenti digitali, pianificazione, capacità della forza lavoro, competenze, concepire esperienze lavorative, agilità, flessibilità, affidabilità, fiducia, coerenza rispetto al mondo non pubblico. Almeno.

Si fanno sforzi affinché ogni dipendente pubblico si senta connesso a principi e valori, che lavori per costruire un vero senso di squadra pervasivo di tutto il servizio pubblico? Si fanno sforzi per aumentare la fiducia nella funzione pubblica e nei dipendenti pubblici? Si fanno sforzi  per semplificare i processi? Si fanno sforzi per preparare la pubblica amministrazione al nuovo mercato del lavoro? Si fanno sforzi per aumentare la flessibilità dell’occupazione pubblica? Si immaginano nuovi modelli occupazionali e di reclutamento? Deleghe? Atti di clima per la prevenzione dello stress e del burnout? E così via.

La pandemia non ha insegnato ancora abbastanza.

Serve un cambio di mentalità ed un ripensamento di tutte le tradizionali strutture di governo. Si può immaginare un unico data lake, l’adozione di tecnologie d’intelligenza artificiale ed il machine learning per sviluppare servizi pubblici più accessibili e incentrati sull’utente? Ma veramente qualcuno pensa sia ancora fantascienza?

Riprogettare la maggior parte dei processi pubblici e passare al cloud computing per fornire servizi digitali end-to-end cambierà e migliorerà il modo in cui la funzione pubblica opera, generando al contempo fiducia, responsabilità e trasparenza nei processi decisionali e nella fornitura dei servizi.

I silos ministeriali e dipartimentali devono cedere il passo ad un robusto pensiero olistico, con l’obiettivo generale di garantire facilità di vita per i cittadini e facilità di fare impresa per i professionisti ed imprenditori.

I dipendenti pubblici hanno bisogno di chiarezza sui loro rispettivi ruoli e l’attenzione deve spostarsi dall’approccio convenzionale basato sulle regole a un profilo basato sui ruoli.

Quelli nuovi.

E questo vale per tutti, dai ministri agli eletti, dai professori universitari ai funzionari, a prescindere dall’ente di appartenenza.

C’è l’opportunità di rinnovare l’immagine del servizio pubblico come luogo di lavoro attraente, anche per attirare e trattenere nuove generazioni di talenti.

E’ a tal fine determinante orientarsi verso un cambiamento del sistema salariale e dell’impegno orario, creando il collegamento, oggi assente o farlocco, tra retribuzione e risultati. Rafforzare e mappare la motivazione e l’impegno dei dipendenti pubblici, serve uno strumento analitico.

Come ci organizziamo per essere a prova di futuro?

Per avere smart working servono dirigenti, funzionari, imprenditori e lavoratori intelligenti, che comprendano che è altro il focus sulla parola lavoro, oggi lo stesso va ragionato non come luogo di frequenza ma come l’attività da svolgere per raggiungere determinati risultati. Il lavoro intelligente a livello basico riguarda l’organizzazione che si dà al personale, con flessibilità, con la scelta finanche delle modalità con le quali adempiere al meglio.

Quando LinkedIn ha recentemente esaminato le abitudini di un campione di persone che cercavano di cambiare lavoro, è emersa la tendenza più palese: il downsizing generalizzato, datori di lavoro più piccoli, sicurezza del lavoro, buona vita vs benefit tradizionali, più controllo e flessibilità. È un’istantanea di un cambiamento culturale, sociale ed economico, più rilevante tra gli under 30 ma è un cambiamento di atteggiamento nei confronti del lavoro che viene richiesto da tutte le fasce d’età.

Storicamente la capacità del lavoro pubblico di attrarre e mantenere la sua offerta verso gli aspiranti civil servant si è basata su pochi assunti di base: la possibilità di una scalata gerarchica, sicurezza a lungo termine, vacanze e un pacchetto pensione.

Non può continuare a credere di avere tutto il potere come datore di lavoro, che il suo prestigio sarà sempre sufficiente per portare il meglio. Anzi.

Servono in poche parole civil servant veri, a partire dai vertici.

Come si incastra questo ragionamento con i grandi temi della sostenibilità e dell’agrifood?

Autoevidente, sono la base per tutto il resto. Ed è proprio da lì che si deve iniziare con nuovi e veri civil servant.

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