(Rinnovabili.it) – “Da soli non si può. Empatia e tecnologia per costruire il futuro”. Il Seminario estivo della Fondazione Symbola (svoltosi nell’incantevole cornice di Treia, nelle Marche) ha lanciato questo tema per riflettere su come e cosa fare per il bene dell’Italia. Ma di quale Italia parliamo? Di un Paese che ha delle difficoltà (diseguaglianze sociali, crisi climatica, migrazioni) ma anche molte qualità che lo rendono attraente e competitivo, come emerge dal Rapporto ITALIA (acronimo di Industria, Turismo, Agroalimentare, Localismo, Innovazione, Arte), realizzato da Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison con il sostegno di Intesa Sanpaolo per descrivere la nuova geografia del Made in Italy.
Territori, comunità, ambiente, sostenibilità. Dalla storia al futuro con la consapevolezza di un’identità comune da rafforzare per valorizzare il Made in Italy, costituito da un tessuto imprenditoriale che deve trarre energia dal mettersi rete, ha detto Fabio Renzi, segretario generale della Fondazione Symbola.
Il vero scoop? Raccontare l’Italia che funziona
Quello che non va riempie le pagine dei media; raccontare l’Italia che funziona è il vero scoop, perché i primi a ignorare i nostri punti di forza siamo proprio noi italiani, spiega Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola: «Quando l’Italia fa l’Italia può avere un ruolo da protagonista». Ma per far questo servono coesione e visione comune. Il Seminario Symbola ha il gusto di dare una chiave di lettura diversa del Paese, mettendo a confronto opinioni differenti e valorizzando le contaminazioni per capire «se possiamo migliorare le cose partendo da dove siamo, rappresentando l’Italia con la spina dorsale che non ha paura di sfidare il mondo». Partiamo dalla soft economy: un’economia di bellezza, innovazione e flessibilità che ci rende più forti perché parte dalle nostre qualità apprezzate nel mondo. Secondo Google, la domanda di Italia nel mondo è cresciuta del 56% in tre anni: l’Italia piace al mondo, noi invece siamo diffidenti. Evidenziare i punti di forza rafforza l’identità: un’identità forte unisce e permette di affrontare insieme i problemi. La crisi climatica, ad esempio, è anche un terreno di competizione e di supremazia geopolitica, come ha compreso la Cina: facciamone una missione comune per l’Europa, restituendole l’importanza e il peso globale che merita.
I dati positivi che pochi conoscono
Giuseppe Tripoli, segretario generale di Unioncamere, snocciola dati sorprendenti. Quanti sanno, ad esempio, che l’Italia è al 6° posto al mondo per i robot industriali installati ed è il secondo Paese manifatturiero d’Europa? Non è un semplice dato relativo alle vendite: export significa capacità di competere e conquistare quote importanti nei mercati internazionali, significa innovazione e qualità. Il nostro agroalimentare, ad esempio, occupa posizioni di vertice (è al 1° posto in Europa per valore aggiunto e occupati in agricoltura di qualità). I dati di Unioncamere confermano il successo di un comparto produttivo che non solo raggiunge risultati importanti con le esportazioni, ma che ha il maggior numero di riconoscimenti europei (DOP, DOC, IGP, STG). Un dato che può sembrare sbalorditivo – data la drammatica crisi in cui versa Roma, che rimanda al mondo un’immagine sconfortante – riguarda i rifiuti: siamo sul podio europeo con una percentuale di rifiuti riciclati del 76,9%, a fronte di una media europea del 36%. Sul fronte del turismo, i pernottamenti di turisti non europei hanno superato i 65 milioni di notti. Se le imprese manifatturiere hanno livelli di eccellenza, la filiera culturale è il nostro fiore all’occhiello: la cultura ha un effetto moltiplicatore di 1,8 sul resto dell’economia. Ciò significa che per ogni euro prodotto dalla cultura se ne attivano 1,8 in altri settori. Leggere i dati positivi sull’innovazione spiega anche che la nostra università prepara benissimo: i ricercatori italiani hanno citazioni di eccellenza al primo posto nel mondo.
Anche Nando Pagnoncelli, Chief Executive Ipsos, conferma il nostro basso indice di fiducia nell’economia italiana: solo il 17% la giudica positivamente. L’opinione negativa si riflette sul clima sociale, connotato di pessimismo, dove alla poca fiducia nei partiti si oppone la grande fiducia nelle imprese (va anche detto che la politica arranca nel formulare proposte convincenti). Il racconto costantemente negativo mette in ombra i primati italiani, di cui si ha scarsa consapevolezza: basta pensare che un esiguo 2% sa che siamo il secondo paese manifatturiero europeo e un misero 9% sa che l’Italia è il maggior produttore di cosmetici al mondo. Alcuni primati sono talmente eccellenti da essere ritenuti non credibili. Cresce la voglia di sostenibilità che non è intesa come un tema astratto, ma è uno dei fattori che rendono credibili le imprese.
Il senso dell’identità, intesa come apertura al mondo
Secondo Sergio Silvestrini, segretario generale della CNA-Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, «l’Italia ce la può fare» ma bisogna dare una comunicazione diversa. Serve fiducia, perché senza fiducia cala la propensione al consumo e si preferisce investire sui mercati esteri anziché su quello italiano. Inoltre deve finire il divario Nord-Sud: perché, ad esempio, la TAV finisce a Salerno, dando per scontato che il Sud rimane indietro ed escludendolo di fatto dalle opportunità offerte dai collegamenti veloci? Silvestrini si è soffermato sul tema dell’identità, ma non intesa in senso escludente bensì «aperta al mondo, come è stato in secoli della nostra storia». Siamo un Paese di piccoli imprenditori, è vero, ma che sono in grado di competere sul mercato globale: bisogna creare delle catene di valore che coinvolgano tutti gli attori, e lavorare insieme. «Ci vuole cultura per apprezzare il valore del nostro artigianato», per questo Silvestrini insiste sull’importanza della formazione, creando le opportune connessioni tra scuola e mondo del lavoro.
Uno dei problemi italiani è la dimensione delle imprese, rileva Luigi Abete, presidente della Banca Nazionale del Lavoro. Se i distretti in Italia sono costruiti intorno alle medie imprese, che peraltro trainano l’economia, dobbiamo aumentare la scala per aumentarne capacità e competitività. Quello che sicuramente è cambiato per le imprese è il rapporto con l’ambiente e con l’idea di sostenibilità: hanno capito che non è solo una cosa utile e giusta, ma è anche un presupposto di business, perché la credibilità è un elemento della competitività. Abete ha posto due elementi di riflessione: il primo è che i punti di forza si valorizzano in un mondo aperto, che aiuta la crescita; il secondo è che la denatalità non è legata solo alle condizioni economiche delle famiglie. Il problema vero è che il mondo è diventato più egoista e chiuso in se stesso, e su questo dobbiamo interrogarci per cambiare.
Innovazione, competitività e decrescita demografica
«L’innovazione richiede un processo culturale» spiega Maria Cristina Piovesana, presidente vicario di Assindustria Venetocentro. Se il Veneto è all’avanguardia per la raccolta differenziata e l’economia circolare (c’è anche un impianto per recuperare la cellulosa dei pannolini usati) si deve anche a un lavoro fatto sui cittadini, coinvolgendoli a cominciare dalle scuole e abituandoli a pensare che “questo progetto è il mio progetto”. Il problema di cui però sembra non si comprenda la reale portata è la decrescita demografica. Per chi faremo innovazione se la popolazione sarà troppo vecchia per capirla e non sarà in grado di utilizzare le nuove infrastrutture? Ma attenzione, non sarà un problema solo italiano, ma europeo e in tale ottica deve essere affrontato. «Creiamo le condizioni per avere nuovi nati senza rinunciare a realizzare i sogni imprenditoriali, soprattutto le donne che sono penalizzate dalla maternità».
Usando una metafora calcistica, Stefano Ciafani (presidente di Legambiente) ritiene che l’Italia sia un gruppo di campioni che deve imparare a giocare meglio in squadra, penalizzato da un arbitro non imparziale e da un allenatore non all’altezza. A volte «viene il dubbio che l’Italia non abbia voglia di se stessa e si danneggi con una cultura antindustriale trasversale e una burocrazia che ostacola le iniziative migliori e più innovative».
Come cambiare per diventare empatico? Secondo Francesco Starace, amministratore delegato di Enel, devi partire da te stesso come ha fatto Enel, che ha riprogettato il futuro con tecnologie empatiche per raggiungere l’obiettivo della decarbonizzazione nel 2025, e ha già raggiunto il 50% di energia da fonti rinnovabili. I cambiamenti possono creare timori, e vanno spiegati: “da soli non si può” vale anche per Enel, come dimostra il caso di Porto Tolle. La centrale – che aveva cessato l’attività nel 2015 – dopo il confronto con i vari attori del territorio e l’analisi di progetti per la riqualificazione in chiave di sostenibilità sociale, ambientale ed economica, diventerà un villaggio turistico ecofriendly.
Il circolo virtuoso della generatività
Empatia, in politica, è anche tirare fuori il meglio dalle persone e dimostrare che l’efficienza può andare d’accordo con la sostenibilità economica e sociale. L’economista Leonardo Becchetti, docente nell’Università di Roma Tor Vergata e presidente del comitato scientifico di Next, sollecita la costruzione di società ricche di senso. Puntiamo sulla qualità e sull’eccellenza, evitiamo la corsa al ribasso, perché dietro c’è sempre qualcuno che paga: si accrescono disuguaglianze che fanno crescere la rabbia dei ceti deboli e sfociano inevitabilmente nel dumping sociale. La parola chiave è generatività. Le persone vogliono una vita che sia utile, che serva a qualcosa o a qualcuno, è soddisfacente se ha un impatto. Dove c’è fiducia si crea un circolo virtuoso che trasforma gli imprenditori in generatori di valore economico e sociale, ma accanto alla fiducia servono lenti diverse per vedere l’economia come qualcosa che vada oltre il Pil ed abbia un impatto positivo sulla società. Utilità è sinonimo di felicità, sottolinea anche Paolo Venturi (direttore di Aiccon, Università di Bologna), perché la dimensione relazionale produce valori inclusivi.
Una società da ricomporre, osserva Stefano Micelli (Università Ca’ Foscari di Venezia). L’impresa è motore di crescita, ma l’opinione pubblica è contro l’impresa; cresce il volontariato, ma le Ong non godono di simpatia; siamo in recessione demografica, e i nostri figli se ne vanno. C’è un corto circuito comunicativo per cui le medie imprese sono percepite come custodi di un mondo analogico, e quindi superate. Pochi sanno che invece la manifattura ha un un’importante componente digitale, pensiamo ad esempio alle stampanti 3D: farlo sapere probabilmente attirerebbe i giovani. Qui non serve parlare nemmeno di eccellenza per mettere in moto la società: è la normalità dell’innovazione che include i ragazzi.
Empatia, tecnologia e donne spingono al cambiamento
Empatia e tecnologia per costruire il futuro, ma qual è il posto delle donne in questo futuro? Darya Majidi (ceo di Daxo Group e Daxolab e fondatrice di DCare srl) cita i dati del World Economic Forum sul gender gap e l’Italia non è messa proprio benissimo: 70° posto su 149. Lavora solo il 49% delle donne rispetto a una media europea del 62%, e pochissime hanno ruoli apicali. Le ragazze si laureano prima e meglio dei ragazzi, ma al momento della maternità una su tre abbandona il lavoro. Il digital gender gap è ancora più grave: solo il 13% delle donne lavora in ambito tecnologico. Essere quasi assenti in AI significa che i sistemi saranno impostati senza tenere conto delle donne, gli algoritmi sono fatti da macchine che si appoggiano a dati che hanno dei bias. Nel libro Donne 4.0 Majidi denuncia il digital mismatch che si sta creando. Ci sono 150mila posti vacanti in Italia per ruoli digitali altamente qualificati a cui le donne non potranno accedere se non si laureano in queste discipline. Empatia, collaborazione, mediazione sono skills manageriali che si insegnano ai militari, ma che sono innate nelle donne; da secoli sono ritenute inadatte alle discipline scientifiche, niente di più falso, ma sono assuefatte a crederci. Coniugando tecnologia, empatia e donne potremmo dare una spinta al cambiamento. Majidi suggerisce la sua ricetta delle 3C: competenza, cuore, coraggio, ovvero potenziare sì le tecnologie, ma riportando l’uomo al centro.
Tirando le conclusioni del Seminario di Symbola, Antonio Calabrò, vicepresidente di Assolombarda, ne apprezza la capacità di confronto pacato che permette di «tenere insieme le ragioni dell’economia con quelle dei capitali sociali, che provano a trovare insieme delle soluzioni inedite» in un paese contraddittorio. Molte regole vanno riscritte, riorientando lo sviluppo sulla qualità e non sulla quantità e restituendo fiducia alle imprese che oggi sono l’unico ascensore sociale perché «premiano quelli bravi», ma anche ricordando la necessità di una politica economica che sappia operare scelte di politica industriale. Le imprese possono fare politica? Sì, se intesa come progetti e suggerimenti per lo sviluppo. E poi superiamo la retorica volgare del rancore e della violenta demonizzazione dell’avversario sostituendola con «la fiducia, una scommessa di cultura».
Forse, ha chiuso Realacci, «dobbiamo ragionare sulla possibilità che soggetti diversi, impegnando solo se stessi, costruiscano in maniera sintetica e comprensibile un’idea d’Italia che spinge al movimento, che può essere condivisa come un punto di partenza e di recupero di orgoglio».