Nella discarica Agbogbloshie in Ghana giacciono abbandonati enormi mucchi di rifiuti elettronici tossici. Un lungometraggio ci racconta la vita di chi lavora nel più grande cimitero al mondo di e-waste
(Rinnovabili.it) – Il Blacksmith Institut ha nominato Agbogbloshie, un suburbio della città africana di Accra, capitale del Ghana, uno dei dieci luoghi più inquinati al mondo. Qui infatti sorge la più grande discarica di rifiuti elettronici ed elettrici del Pianeta, in cui convergono, più o meno legalmente, i RAEE di gran parte dell’Occidente.
A raccontare al resto del mondo la realtà di questo immenso cimitero tecnologico e la vita delle persone che vi lavorano è E-Wasteland, film dell’australiano David Fedele. Il regista ha trascorso 3 mesi nella discarica catturando in un lungometraggio l’orrore quotidiano vissuto dalla popolazione locale, sfruttata nel recupero e riciclaggio dei materiali.
“Praticamente 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, i rifiuti elettronici vengono bruciati per separare le plastiche, e recuperare piccole quantità di metallo che possono essere riciclate e rivendute”, spiega Fedele. “Scuri fumi tossici appestano costantemente l’aria, e l’odore è inimmaginabile e senza fine”.
Il Ghana importa 215.000 tonnellate di e-waste dall’estero, soprattutto dall’Europa, e gran parte finisce proprio ad Agbogbloshie. Qui i RAEE vengono disassemblati e ogni elemento ancora funzionante viene recuperato, mentre il resto viene bruciato per estrarre tutti i metalli recuperabili (soprattutto rame e alluminio), lasciando la parte rimanente ad inquinare l’ambiente. Il lavoro però afferma il regista, è “estremamente ben organizzato. I ‘capi’ portano nuovi carichi di rifiuti ogni giorno, incaricano squadre di quattro o cinque ragazzi di bruciarli. Successivamente vanno portano i metalli recuperati dai commercianti locali. Per lo più, gli acquirenti sono libanesi, ed i materiali sono riesportati di nuovo”.
Il film è praticamente un film ‘muto’, non c’è dialogo, in quanto l’intenzione di Fedele era quella di fornire un’esperienza visiva della vita in una baraccopoli, dove le persone sopravvivono attraverso il riciclo dei rifiuti elettronici. “Avevo visto una serie di documentari giornalistici incentrati sulle persone che lavorano con l’e-waste, ritratti come vittime attraverso interviste e voci fuori campo, ed ero consapevole del fatto che non era quello che volevo fare io. Ho voluto presentare visivamente un ambiente particolare, cercare di mostrare nel modo più veritiero possibile e lasciare alle persone la responsabilità di riflettere su tutto ciò”.