di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo
UN BIOLOGO, UNA GIURISTA, UN INGEGNERE CHIMICO, UNO PSICOLOGO
«Non sono sicuro che le cose più urgenti e indispensabili del momento attuale riguardino il sapere e il fare» ci ha risposto Carlo Modonesi mettendo in questione la nostra stessa domanda: gliene siamo grati, perché è anzitutto sulle domande che va esercitato un autentico spirito critico e siamo convinti che intendersi sulle domande è il primo obiettivo di un dialogo. «Risponderò quindi con le parole del grande teologo e filosofo italo-tedesco Romano Guardini», ha proseguito Modonesi, «che negli anni Cinquanta del secolo scorso illustrò in modo elegante, sintetico e molto convincente le tre virtù essenziali per il futuro: “1) la serietà, cioè il rendersi conto della reale posta in gioco in mezzo a tutte le chiacchiere sul progresso; 2) il coraggio, cioè il saper prendere posizione di fronte alla possibile distruzione del pianeta; 3) la libertà, cioè la capacità di resistere al potere suggestionante dei media a cui si può arrivare solo con un’educazione interiore ed esteriore”».
Anche Monique Chemillier-Gendreau ha puntato su qualità morali nella sua risposta: «La cosa più difficile nella vita, e tuttavia la più importante, è il rispetto dell’altro, di tutti gli altri, nella loro immensa diversità. L’essere umano deve imparare a vivere la sua libertà, non come realizzazione egoistica di desideri personali, ma come definizione del suo posto in una comunità solidale e responsabile». Con un linguaggio e una prospettiva che vengono da un campo disciplinare diverso, Mario Giampietro ha espresso idee simili: «Riconoscere le nostre fragilità e debolezze in quanto individui e la nostra dipendenza assoluta dagli altri umani e dalla natura. Capire che la nostra forza è la capacità di prenderci cura l’uno dell’altro e che la tecnologia non serve a dominare la natura ma soltanto a esprimere delle pratiche sociali più desiderabili che devono essere in armonia con il nostro ambiente». Si tratta sempre di qualità morali anche nella risposta di Vincent Mignerot , che tuttavia esplicita il legame tra la propria concezione e alcuni dati di fatto antropologici: «Accettare la fatalità non è rassegnazione, è riconciliarsi con il margine di manovra, per quanto piccolo, di cui dispone effettivamente ognuno di noi. L’accettazione protegge dalle fantasie e dalle illusioni, e minimizza il rischio di errore concreto». Serve perciò «comprendere che ogni persona è sempre prima di tutto il risultato di un processo evolutivo che la trascende, che trascende l’umanità intera» e tale consapevolezza è per Mignerot necessaria «per sottrarre investimento psichico alla strategia più pericolosa cui tendiamo quando preferiamo non accettare una situazione: la designazione arbitraria di colpevoli. Sembra importante che il cammino punti a una “responsabilità autonoma”.
Le nostre scelte sono effettivamente il risultato di processi complessi, non hanno origine in un altro essere umano o in un particolare gruppo di esseri umani. Dobbiamo farci carico noi stessi del fatto che siamo attraversati da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo. Accettare, da ultimo, che ciascuno di noi ha da solo in carico le proprie contraddizioni e ritrovare così ciò che abbiamo in comune, poiché tutti gli esseri umani devono sempre confrontarsi con le loro contraddizioni». Ma come raggiungere questi obiettivi di crescita morale e in che misura la scuola può contribuirvi? È la questione che ci sembra rimanga aperta alla luce di queste risposte.
UN INGEGNERE ELETTRONICO, UNA GIORNALISTA E GIOVANI ATTIVISTI
Con tono e concretezza militanti, altri interlocutori hanno invece precisato una serie di obiettivi di contenuto irrinunciabili. Andrea Masullo: «Il cittadino, visto il subordine in cui la politica è scesa rispetto ai mercati, deve informarsi e conoscere l’esistenza di strutture finanziarie ed imprese green, ed imparare a “votare con il portafoglio”: scegliere prodotti finanziari e beni di consumo, solo fra quelli che dimostrino una provata attenzione alla sostenibilità in termini di certificazioni biologiche, etiche (no lavoro minorile ecc.), prodotti stagionali e a chilometro zero (almeno di produzione nazionale)». Deve inoltre, prosegue Masullo, «aderire al processo in rapida espansione anche in Italia delle Energy e Green Community, per l’autoproduzione di energia rinnovabile e la gestione sostenibile del territorio, coinvolgendo gli amministratori locali».
Anche Linda Maggiori ha posto obiettivi simili e rivolti all’intera cittadinanza: «Credo sia necessario sapere quali sono gli impatti e le conseguenze delle nostre azioni, per provare a vivere in modo più sobrio e rispettoso verso gli altri esseri viventi. Solo conoscendo, si può cambiare. Ma è sempre più attuale comprendere anche come funziona l’economia finanziaria, avere gli strumenti per “fare la tara” ad un pensiero unico sempre più pervasivo, e per contestare scelte governative repressive spacciate “per interesse pubblico”». La visione critica di Maggiori, tuttavia, individua anche nessi con alcune abilità pratiche per lei decisive: «credo dobbiamo imparare a vivere con meno, e a “saper fare” usando mani, piedi e corpo. Camminare e pedalare piuttosto che andare in auto, condividere oggetti, autoprodurre cibo con alimenti locali e sani, piuttosto che comprare alimenti industriali. Imparare a coltivare un piccolo orto in modo sinergico… anche in città. Imparare a riusare, riparare ogni oggetto, boicottando così la società del consumo che ci vuole perennemente dipendenti da oggetti da acquistare».
Un’idea che ritroviamo anche nella articolata risposta dei giovani attivisti di PIaneta: «Manualità in senso ampio, il lavoro manuale è spesso sottovalutato, ma è importante capire quanti sforzi si celino dietro ogni oggetto che acquistiamo e che – purtroppo – buttiamo». Questo saper fare pratico contribuisce a formare una più generale consapevolezza della crisi ecologica: «Come parte costituente della società che ha cambiato profondamente gli equilibri ecologici, è fondamentale conoscere come quest’ultima impatti sull’ambiente, tramite un’informazione critica» e ciò implica naturalmente un’istruzione «scientifica di base come cittadini consapevoli, sia grazie alle scuole che alla divulgazione». Il collettivo di Pianeta non fa tuttavia cenno al fatto che la “scienza” è a sua volta un campo di conflitti e dibattiti, troppo spesso ridotto dall’istruzione a un banale insieme di “verità acquisite” da contrapporre alla generica ignoranza di chi non le “crede”. In ogni caso, secondo il giovane gruppo, «oggigiorno è indispensabile acquisire» anche:«Consapevolezza dell’attuale struttura sociale del mondo, modelli di governance internazionali e nazionali, oltre ad elementi di diritto generale, per capire quale è il nostro ruolo nella società e come interagire con essa per raggiungere i nostri obiettivi. Empatia, viviamo in un mondo individualista e meccanico, dove non si è abituati a mettersi nei panni dell’altro. Coraggio, di compiere le proprie scelte e dire ciò che si pensa, nel rispetto degli altri. Accettazione della complessità e pensiero critico, per andare oltre al mero pensiero “se non lo vedo allora non esiste”».
UN PEDAGOGISTA, UN ECONOMISTA POLITICO
Chiunque si occupi di educazione sa bene che la questione del come, cioè del metodo e dell’organizzazione, non va tenuta separata da quella degli obiettivi. Non stupisce quindi che Enrico Bottero l’abbia messo lucidamente in evidenza nella sua risposta: «Nel corso dell’Ottocento, per ragioni politiche ed organizzative, la scuola è stata organizzata con la divisione dei gruppi in classi omogenee per età, l’insegnamento simultaneo e trasmissivo, la valutazione numerica, ecc. I modelli erano i Collegi gesuiti e le scuole lasalliane. È un modello “clericale” in cui l’allevo è ridotto alla passività e in cui non si agisce concretamente per la costruzione di una cittadinanza democratica. In questo modo non solo è più difficile apprendere (soprattutto per i più deboli) ma soprattutto è impossibile cominciare a costruire il senso della collettività solidale e della cittadinanza».
Il “senso” di cui parla Bottero può ben riassumere la direzione verso cui puntano tutti gli obiettivi specificati dai vari interlocutori, concordiamo perciò sull’importanza di tenere presente che da più di un secolo è oggetto di sperimentazione e ricerca pedagogica: «A partire dalla fine dell’Ottocento», ricorda Bottero, «alcuni esponenti delle pedagogie attive hanno cercato di modificare l’organizzazione delle attività scolastiche tenendo conto della necessità di fare della classe una società in miniatura. Lo hanno fatto solo in alcune scuole, spesso private (anche per le difficoltà di realizzarle nel settore pubblico). La scelta di fondo è stata quella di centrare le attività sul “fare insieme”. Non è infatti sufficiente “vivere insieme” raggruppando un gruppo di persone diverse in una classe per costituire un collettivo. Per “vivere insieme” bisogna “fare insieme”. Per fare “società” è necessario che ogni membro del gruppo abbia la possibilità di costruire praticamente qualcosa con gli altri. È una possibilità a cui deve essere formato fin da piccolo. Mentre dichiara l’adesione al gruppo deve cioè sentirsi valorizzato nella sua identità».
Da questo principio metodologico, possono discendere varie attività specifiche che Bottero invita a non pensare come fini a se stesse: «Se gran parte dell’insegnamento diventa cooperativo, mentre si lavora sulle conoscenze in modo attivo si opera anche per la costruzione di “istituzioni”. È anche necessario organizzare nella scuola spazi organizzati di parola e di discussione in cui gli allievi siano i protagonisti di alcuni aspetti dell’organizzazione delle attività. Non sarebbe difficile farlo (alcuni insegnanti lo fanno, come quelli del Movimento di Cooperazione Educativa) ma le resistenze sono ancora molte, nella scuola (tuttora organizzata con un’autonomia degli istituti che ha promosso la competizione più che la cooperazione), nell’Università e nella società in genere. È necessario comunque impegnarsi, coinvolgendo anche i genitori e la società. Senza perdere la speranza, la qualità più importante di ogni educatore».
Crediamo che questo modo di pensare la scuola e l’educazione dia concretezza pratica anche alle riflessioni di tutti gli altri interlocutori e, soprattutto, indichi il tipo di ambiente educativo in cui può trovare davvero senso occuparsi anche di obiettivi di apprendimento specifici. Obiettivi che resta comunque importante continuare a individuare, discutendoli in relazione alle questioni di realtà che ci riguardano collettivamente.
Bernard Barthalay ha provato a indicarli in maniera particolarmente puntuale: «Un essere umano oggi deve conoscere i suoi diritti: Dichiarazione di Filadelfia (incorporata nella Costituzione dell’OIL); Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino; Preambolo della Carta delle Nazioni Unite; Dichiarazione universale dei diritti umani. Per gli europei: Carta sociale europea (nota come “Carta di Torino”); Carta europea dei diritti sociali fondamentali; Carta europea dei diritti fondamentali. Per i francesi: Preambolo della Costituzione del 1946. E per altre nazionalità, i testi equivalenti.
Deve conoscere l’ecologia scientifica e aver letto i rapporti dell’IPCC.
Deve conoscere i rudimenti dell’agricoltura biologica, in teoria e in pratica (permacultura); deve saper differenziare i rifiuti, ripulire l’ambiente e la foresta, calcolare la propria impronta di carbonio ed elaborare un piano per ridurla (isolamento termico degli edifici; autonomia energetica del nucleo familiare); se possibile, dovrebbe prendere l’iniziativa di un tale piano, alla scala del proprio comune, e chiedere al proprio comune di farlo a scala intercomunale (una buona scala è il pagus romano e, nella città, il quartiere), regionale e interregionale (una buona scala è il bacino fluviale), ecc.
Deve imparare a combattere incendi, inondazioni e pandemie; a mantenere sana, riparare e ricostruire la propria casa; a trovare alternative per le “cose essenziali” in caso di necessità: a prestare il primo soccorso ai feriti, a organizzare e gestire una fattoria urbana, un banco alimentare, ecc.
Deve conoscere la storia della Resistenza; deve sapere come creare una rete e organizzare la difesa di un territorio.Deve conoscere la storia della filosofia (non solo quella occidentale), la storia delle religioni e della saggezza, l’economia politica (non l’impostura economica), le forme di governo, soprattutto quella dei beni comuni, e diverse lingue moderne». Ma la riflessione continua, aperta al contributo di tutti coloro che vorranno parteciparvi (formazione@rinnovazioni.it).