di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo
Carlo Modonesi è Biologo di formazione, si è specializzato in Igiene e sanità pubblica presso la Facoltà di Medicina dell’Università Statale di Milano. Durante il training scientifico si è occupato di evoluzione biologica, ecologia e biologia teoretica. Da molti anni si interessa del rapporto ambiente/salute con particolare riferimento alle malattie degenerative ambiente-correlate. Ha tenuto corsi universitari e post-universitari di Biologia Umana e Animale, di Ecologia Umana e di Comunicazione Ambientale, collaborando con vari atenei italiani.
Quali connessioni o contraddizioni vede tra quello che la occupa come individuo (lavoro, ricerche, passioni, ossessioni…) e quello che la pre-occupa come essere umano che fa parte di molteplici collettività, dal locale al globale?
A questa domanda si potrebbe rispondere focalizzando il discorso su un’infinità di tematiche. A botta calda, direi che uno degli aspetti che mi preoccupano maggiormente è il deterioramento delle relazioni sociali. In qualsiasi ambiente umano (lavorativo, familiare, amicale, ecc.) si sta affermando una pericolosa tendenza individualista che impedisce la reciprocità, l’ascolto e la solidarietà. Negli ambienti di lavoro questo fenomeno è deleterio non solo per la qualità della convivenza tra persone che condividono un’attività lavorativa, ma anche per la qualità stessa del lavoro. Se si sale di scala, è possibile verificare l’accelerazione di questo trend nella politica partitica, dove il mandato elettorale accordato dagli elettori viene sentito dai politici (in tutti i partiti, nessuno escluso) non come una spinta morale a dedicarsi anima e corpo al bene della comunità, ma come un privilegio che consente di coltivare unicamente i propri interessi materiali e immateriali. A mio modo di vedere, la scarsa affluenza alle urne che da anni viene registrata in Italia (e non solo in Italia) è un sintomo di un drammatico debito di credibilità che la classe dirigente ha accumulato soprattutto nell’ultimo quarto di secolo. Il risultato è un disinteresse nei confronti del bene pubblico che ha attecchito nella gran parte del corpo sociale a tutti i livelli.
“Se tutti in tutto il mondo facessero così, diventerebbe impossibile fare così per chiunque”. “Continuando a fare così, ben presto noi esseri umani non potremo più fare così”. Che cosa le evocano queste frasi?
Anche in questo caso le risposte potrebbero essere estremamente varie. Per quanto riguarda il sottoscritto, la domanda induce immediatamente a pensare a una delle piaghe sociali più gravi di questo periodo storico, ossia l’iperconsumismo. Da questa parte del mondo, ogni essere umano oggi dispone di una quantità di beni infinitamente maggiore rispetto alla popolazione umana di cento anni fa. Spesso si tratta di beni voluttuari che vengono sottratti direttamente o indirettamente al cosiddetto “capitale naturale” e il cui uso e/o smaltimento deteriora la struttura e le funzioni degli ecosistemi, con effetti che ben conosciamo sulla qualità fisica, chimica e biologica dell’ambiente di vita. La tendenza delle persone a riempire ogni vuoto reale o virtuale con merci e consumi inutili o comunque evitabili è forse una delle “malattie” peggiori di quest’epoca storica. Fare resistenza a un simile processo di degenerazione antropologica, prima ancora che ambientale, proponendo un cambiamento degli stili di vita, è ciò che promuovono i sostenitori di un modo di vivere più sobrio e responsabile (io tra questi). Spesso si sente dire che c’è qualcosa di ideologicamente sbagliato in questo modo di pensare. Può darsi che sia così, ma non mi pare che l’attuale modello di sviluppo sia interessato a realizzare qualcosa di più promettente. Una società in grado di ridurre i suoi smisurati consumi di materia e di energia è necessaria e forse è ormai un passaggio obbligato della civiltà umana.
Stanno finalmente guadagnando visibilità i problemi di sostenibilità biologica, economica, sociale, culturale che pesano sull’esistenza dell’umanità – eppure si tarda e si fatica troppo a prendere e attuare decisioni collettive conseguenti: non è che c’è qualcosa di insostenibile anche nell’organizzazione politico-istituzionale umana?
C’è molto più di “qualcosa” di insostenibile nelle organizzazioni politico-istituzionali umane. A mio giudizio imperversa in tutto il mondo, grazie anche alla complicità del sistema mediatico, una vera e propria ideologia distruttrice che giocando con la falsa promessa di garantire un mondo migliore fondato sul “progresso” e sul benessere diffuso, nei fatti aggrava la forbice sociale, accresce la povertà e produce devastazione ovunque. La prova sta nel fatto che oggi la ricchezza detenuta dall’1% della popolazione mondiale supera quella del restante 99%. Nondimeno, tale consapevolezza non sembra turbare né i governi del mondo occidentale né le grandi agenzie internazionali che, in materia, avrebbero il dovere di fornire almeno qualche spiegazione. La disuguaglianza crescente riguarda ormai tutte le regioni del pianeta, nessuna esclusa, dal momento che il numero dei poveri è in aumento anche nelle economie tradizionalmente ritenute ricche, come l’Italia. L’esplosione della disuguaglianza ostacola la lotta alla povertà perché i poveri hanno sempre meno voce, come ampiamente documentato con dati e casi-studio forniti da una serie di indagini internazionali. In una realtà globale in cui oltre un miliardo di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno, e un individuo su nove non ha nemmeno cibo sufficiente per la sussistenza, questo circolo vizioso rischia di diventare una delle peggiori insidie per la stabilità e la democrazia degli stati, anche nelle aree più benestanti del globo. Si tratta di un’ideologia subdola che si basa su un modello di sviluppo incompatibile sia con la vita sulla Terra sia con l’esistenza umana. Questa ideologia ha un nome – crescita economica illimitata – ed è responsabile della mercificazione della natura e delle sue risorse. Lo sdoganamento di un neoliberismo selvaggio e privo di regole ha aggravato i problemi ambientali producendo al tempo stesso l’esclusione di intere fasce della popolazione globale (NB: si legga a questo proposito l’interessantissimo saggio “Espulsioni” della sociologa Saskia Sassen).
Ci aiuti per cortesia, pensando alla sua esperienza, a costruire una risposta collettiva a questa domanda: che cosa è indispensabile sapere e cosa è indispensabile imparare a fare per un essere umano oggi?
Non sono sicuro che le cose più urgenti e indispensabili del momento attuale riguardino il sapere e il fare. Risponderò quindi con le parole del grande teologo e filosofo italo-tedesco Romano Guardini, che negli anni Cinquanta del secolo scorso illustrò in modo elegante, sintetico e molto convincente le tre virtù essenziali per il futuro: “1) la serietà, cioè il rendersi conto della reale posta in gioco in mezzo a tutte le chiacchiere sul progresso; 2) il coraggio, cioè il saper prendere posizione di fronte alla possibile distruzione del pianeta; 3) la libertà, cioè la capacità di resistere al potere suggestionante dei media a cui si può arrivare solo con un’educazione interiore ed esteriore”.
Letture per approfondire. Tra le molte pubblicazioni scientifiche di Carlo Modonesi segnaliamo: Cancro e ambiente in un’ottica di processo, in Petronio M.G. (a cura di), Inquinamento Ambientale e Salute, Aboca Editore, Arezzo 2020; con Galassi S., Ecologia dell’Antropocene, Aracne Editrice, Roma 2017; con Panizza C., Agroindustria, sistemi ecologici e salute pubblica, in Poggio P.P. (a cura di), Le tre agricolture: contadina, industriale, ecologica, Jaca Book, Milano 2015; Ecologia e beni comuni: un mondo alla rovescia?, in Gagliasso E., Della Rocca M., Memoli (a cura di), Per una scienza critica. Marcello Cini e il presente: filosofia, storia e politiche della ricerca, ETS, Roma 2015; I pesticidi tra ecologia umana e salute pubblica, in AAVV, Viaggio all’origine del cibo, I Quaderni di Valore Alimentare – per un’alimentazione di qualità, Treviso 2015; con Giuliani A., Scienza della natura e stregoni di passaggio, Jaca Book, Milano 2011.
Chi volesse reagire a queste risposte, ponendo altre domande a Carlo Modonesi, ci scriva a formazione@rinnovabili.it. Alla luce delle sue riflessioni, noi gli poniamo queste ulteriori questioni che valgono anche per tutti i nostri lettori:
Nella sua prima risposta si è concentrato su ciò che la preoccupa (e il focus che ha scelto è condivisibile e molto importante) ma non l’ha messa esplicitamente in relazione con “ciò di cui si occupa”, vale a dire quello in cui è impegnato personalmente (non solo in ottica professionale): ci piacerebbe se potesse esplicitare il nesso.
Quali aspetti di struttura istituzionale rinforzano o nutrono secondo lei l’ideologia distruttrice che ben descrive nella sua terza risposta? In altri termini, a suo parere vi sono (e nel caso quali sono gli) specifici cambiamenti nell’assetto istituzionale che potrebbero dischiudere positive vie d’uscita da quel circolo vizioso ideologico?
Sobrietà, responsabilità, serietà, coraggio e libertà: virtù che ciascuno di noi può senz’altro cercare di coltivare sul piano individuale – ma come coltivarle, a suo parere, sulle differenti scale collettive?
Il “sapere” e il “fare” dominano gli obiettivi educativi dei nostri sistemi scolastici, e questo ci ha indotto a formulare di conseguenza la quarta domanda. La sua risposta punta piuttosto su modi di “essere”: fino a che punto a suo parere il sistema scolastico può giocare un ruolo rispetto a questo obiettivo, sia in senso positivo sia in senso negativo?