(Rinnovabili.it) – «Il lievito naturale è la più importante scoperta di trasformazione fatta sul cibo» spiega Antonio Lamberto Martino, uno dei maggiori esperti italiani di tecnica della panificazione. Nel pane è la nostra storia, ma Antonio non si accontenta delle risposte della tradizione. Lo studio e la ricerca lo portano dalla Sicilia in giro per il mondo a comprendere i diversi processi di lievitazione e di lavorazione del pane. Ricette e non solo: nel suo libro La bontà del pane e tante ricette mediterranee (edito da Mondadori), ad esempio, Antonio Lamberto Martino spiega con chiarezza le differenze tra lievito naturale, lievito di birra e lievito chimico. Ha partecipato come giudice a Bake off Italia e alla Prova del cuoco, ma confessa che non lo interessa tanto la notorietà quanto far conoscere il lavoro e la fatica che stanno dietro ai cibi che portiamo in tavola. Una tavola allegra, conviviale, fatta dei piatti semplici della tradizione mediterranea: non per niente Antonio Lamberto Martino ha ideato il Manifesto per una degustazione mediterranea. Dirige la scuola di panificazione Laboratorio in corso, collabora con aziende agricole biologiche e si dedica allo studio dei grani autoctoni, che predilige: leggete il suo libro e scoprirete perché…
Più che all’apparenza guardi alla sostanza: ti distacchi dal cliché consueto degli chef, o aspiranti tali, che affollano le trasmissioni televisive. Perché hai scelto il pane, passione o tradizione familiare?
Ho rischiato di diventare una star con il solo obiettivo di appagare il mio ego, ma per buona sorte i miei sacrifici, i miei studi e il mio buon senso hanno prevalso su tutto questo. Se la televisione è il coronamento di tanti sacrifici, perché rinunciare? Perché voglio raccontare il contadino, il pescatore e il duro lavoro di chi imbandisce le nostre tavole, mentre la televisione attuale è troppo ovattata per essere una valida interprete dei loro sacrifici. Oggi parteciperei solo a un programma televisivo o a un evento gastronomico che mettessero in risalto anche questi aspetti: altrimenti sto bene così.
Cosa mi ha spinto nel mondo del pane? Non la passione: questa ti acceca, non ti permette di focalizzare i pregi e i difetti di ciò che fai, è intrisa di contraddizioni. In nome della passione tutto è giustificato, ci permettiamo enormi ignoranze, ripetiamo gli stessi difetti, e anche quando apprendiamo nuove nozioni non ci applichiamo veramente perché l’importante è essere appassionati. Quindi dov’è il miglioramento se siamo guidati solo dalla passione?
Per questo la passione non basta a giustificare il mio cammino nel cibo, iniziato proprio dal mondo del pane. E nemmeno la tradizione familiare. Direi piuttosto che ho scelto il pane per curiosità.
Fin da bambino, vedendo mia nonna impastare, mi sono chiesto cosa riuscisse a trasformare farina e acqua in qualcosa di altamente digeribile e nel contempo così gustoso: alle mie imperterrite domande mi veniva sempre risposto la “pratica”, ma sapevo che questo non poteva bastare. È qui che la passione ha mostrato i suoi limiti, non mi spiegava cosa accadeva realmente, anche la più consolidata delle pratiche non riusciva a soddisfare la mia curiosità, avevo bisogno di risposte certe non solo per me ma anche per chi un giorno avrebbe gustato il mio pane. Da questo momento il pane è stato un totem verso uno stile di vita fatto di domande per capire e migliorare, e per rispondere ai miei infiniti quesiti sul vastissimo mondo del cibo. Quindi è la sete di conoscenza verso l’alimento tecnologicamente più evoluto e complesso che l’uomo abbia mai fatto che mi ha letteralmente lanciato dentro il mondo delle farine ancora prima del pane.
Nel tuo libro esorti a lavorare con le mani: fare il pane è un’esperienza sensoriale che non si può delegare alle macchine. In un mondo che corre sembra quasi un antistress…
Questa cosa che il pane è un antistress mi è stato detto tante volte, anche il fai da te casalingo è un ottimo antistress, come tanti altri lavori manuali: in questo nuovo millennio la tecnologia sta gradatamente sostituendosi al lavoro manuale a discapito della creatività. Ma il pane, l’impastare con le mani, ha qualcosa che tutti gli altri lavori non hanno: la nascita e la crescita – si chiama vita – mentre tutti gli altri lavori sono inconfutabilmente stabili, statici. Il pane per diventare tale pretende perentoriamente di essere attraversato dalla vita batteri e funghi trasformano la farina in qualcosa di commestibile e nutriente, ma se non sai coordinare e dirigere questa quasi illimitata orchestra puoi anche convincerti di essere il mago Merlino, ma al pane hai ben poche storie da raccontare.
A 40 anni suonati, di cui ben 34 anni trascorsi impastando farine, uso ancora le mani, amo mettermi alla prova ma metto alla prova anche gli altri: come ho detto prima, al pane di chiacchiere non gliene puoi raccontare.
La rivoluzione verde del secolo scorso ha aumentato le rese agricole, ma con l’uso incontrollato di pesticidi e di fertilizzanti. Nelle tue ricette suggerisci di usare farine integrali di grani autoctoni. Perché sono da preferire, ritieni che oltre al gusto abbiano anche un valore in termini di sostenibilità ambientale?
In laboratorio sono state create appositamente delle varietà di grano molto più basse rispetto a quelle presenti in natura appunto per concentrare più energia possibile nella cariosside, proteine e amido gli obiettivi primari. Ovviamente tutto questo va a scapito dell’apparato radicale che, trovandosi forzatamente più corto, è incapace di andare a prelevare in profondità i minerali necessari per il proprio sostentamento (azoto, fosforo e potassio tra i primi) obbligando così l’uomo a somministrare alla pianta questa parte mancante. A questo si somma lo stress fisico che il contadino è costretto ad apportare alla terra: questa incapacità delle radici di andare in profondità costringe a praticare arature sempre più profonde, procurando alla terra uno stress fisico non trascurabile.
Il grano autoctono inoltre è stato selezionato dai contadini direttamente nei campi tirando fuori la pianta che autonomamente si mostrava capace di affrontare le avversità ambientali, come parassiti o carenze idriche, per poi essere riseminato nell’anno successivo; il grano selezionato in laboratorio, invece, non conosce le difficoltà che la natura gli mette dinanzi, ma punta dritto alla sola resa in termini di quantità produttiva.
Il grano autoctono è sicuramente controcorrente per lo sviluppo tecnologico industriale com’è concepito oggi – dal campo ai processi molitori – ma rimane pur sempre la salvezza della nostra stessa esistenza su questa Terra, se vogliamo realmente continuare a farlo.
Il pane è l’elemento centrale della tavola, della socialità del cibo. Qual è il pane per la scarpetta perfetta?
Ti potrei dire la ciabatta, la baguette, comunque tutti quei pani che hanno una crosta sufficientemente compatta e nel contempo concava da accogliere i sughi, ma voglio andare oltre: il pane che si adatta meglio ad essere scarpetta è quello con tanta mollica al suo interno, è la mollica la spugna del nostro piatto, con un’alveolatura compatta, con buchi non troppo larghi. La mollica conquista indiscutibilmente il podio per i palati goderecci come il mio.
So che hai seguito con favore le manifestazioni dei ragazzi di #FridaysforFuture promosso da Greta Thunberg per fermare il cambiamento climatico. Se dovessi dare una loro definizione, di che pasta sono questi ragazzi?
Stoica, i ragazzi di oggi sono dei perfetti stoici. A differenza degli adulti mostrano le proprie idee senza fare uso dell’ira, sanno resistere alle offese mostrando il lato migliore attraverso la comprensione, si danno forza l’uno con l’altro rallegrandosi; noi adulti, al contrario, ci dimostriamo divisi e divisibili, sempre imbevuti delle nostre stupide certezze. I grandi impegni, come questo di fermare il cambiamento climatico, li compattano: per questo credo che i giovani siano i soli in grado di cambiare veramente il mondo in meglio. Questi giovani coltivano lo spirito prima delle loro ambizioni, ma soprattutto sostengono fortemente la vita.
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