Rinnovabili

Andrea Masullo: catastrofe ecologica e inerzia politica

Andrea Masullo
Credits: Daniela Martinelli

di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo

Andrea Masullo è ingegnere elettronico e esperto scientifico del Ministero dell’Ambiente, già docente di Teoria dello Sviluppo Sostenibile all’Università di Camerino e nel Master Ambiente Pace e Sviluppo presso la Pontificia Università Urbaniana. È stato responsabile dell’Unità Clima e Energia del WWF Italia.

Quali connessioni o contraddizioni vede tra quello che la occupa come individuo (lavoro, ricerche, passioni, ossessioni…) e quello che la pre-occupa come essere umano che fa parte di molteplici collettività, dal locale al globale?

50 anni fa ho conseguito la maturità al liceo classico; cinque anni di studi frammentari e poco coinvolgenti durante i quali mi rifugiavo spesso nella lettura di una enciclopedia acquistata a fascicoli nelle edicole, Natura Viva dell’editore Vallardi. Era un’opera sistematica con dei bellissimi schemi scientifici, che tuttavia, nella parte descrittiva delle diverse specie animali e vegetali, finiva sempre con una considerazione di tipo utilitaristico (questo animale serve a… viene cacciato con… da questa pianta si estrae la…), che istintivamente saltavo, beandomi delle bellissime immagini a corredo delle sconcertanti descrizioni. Affascinato dalla poesia “I limoni” di Eugenio Montale, che vedeva nel silenzio le cose sul punto di svelare il segreto della loro esistenza, la loro verità nascosta, mi misi alla ricerca di un senso del mio diventare adulto e cominciai il mio percorso attraverso la ricchissima letteratura sulle questioni ecologiche globali, che si muoveva contro-corrente rispetto alla fede totalizzante che dipingeva il progresso della tecnica come una marcia trionfale verso un futuro sempre più radioso. In tutti questi anni è cresciuta esponenzialmente in me una visione critica dello sviluppo e lo sconcerto e il disagio nel vedere allargarsi la distanza fra come era ed è organizzato il mondo e come dovrebbe esserlo per evitare la catastrofe annunciata dalla scienza. Ciò che più mi preoccupa è l’incapacità del modello dominante di concepire un percorso diverso da quello che, in tutta evidenza scientifica, ci porta verso il declino della civiltà che, se non interveniamo per tempo, rischia di avere esiti catastrofici. Il conflitto crescente fra il “vecchio” e il “nuovo”, consueto nei vari passaggi epocali della storia degli 11.000 anni della nostra civiltà, con il “nuovo” che conquista ineluttabilmente i suoi spazi e il “vecchio” che si difende ad oltranza contro ogni ragionevolezza, è per me un segnale di speranza che davvero stiamo avvicinandoci a quel punto di svolta che ho sognato per tutta la vita: una civiltà non irrazionalmente contro la natura, bensì radicata nella potenza ineguagliabile di tre miliardi e mezzo di anni di evoluzione della biosfera.

“Se tutti in tutto il mondo facessero così, diventerebbe impossibile fare così per chiunque”. “Continuando a fare così, ben presto noi esseri umani non potremo più fare così”. Che cosa le evocano queste frasi?

Sono frasi che evocano il concetto di “spazio ambientale” che ciascun individuo, di ciascuna specie occupa nella biosfera. Tutta la questione ambientale parte da questo semplice piccolo concetto che ha a che fare con lo stile di vita di ciascuno di noi. Questo spazio ha un limite certo dato dalla Produzione Primaria Netta, cioè quanto la biosfera riesce a produrre in un anno attraverso la fotosintesi. Questo è il budget annuale che abbiamo a disposizione, non solo dell’uomo, ma di tutti gli esseri viventi che popolano il nostro pianeta. Eccedere questo budget significa indebitarsi, come un conto in banca che va in rosso e quindi negli anni successivi avremo a disposizione un budget minore. Mantenendo in buona salute gli ecosistemi, aumentando la superficie forestale, combattendo il degrado e la desertificazione, potremmo perfino accrescere questo budget; ma disgraziatamente stiamo facendo l’esatto opposto. La potenzialità produttiva della biosfera e quindi la nostra stessa vita, dipende dalla biodiversità. Il modello consumista ha abbondantemente eroso lo spazio ambientale di molte altre specie spingendole verso l’estinzione e distrugge annualmente una enorme superficie di foreste: stiamo erodendo le basi della nostra stessa sopravvivenza. L’insaziabile sete di risorse dell’economia moderna sta erodendo anche le basi di sviluppo di larga parte della popolazione umana, allargando la forbice fra ricchi e poveri. Paradossalmente, in questo contesto, si creano allarmi su flessioni demografiche locali, all’interno di una popolazione mondiale che, superati i 7,9 miliardi, corre verso i 10 miliardi entro la fine del secolo. Il combinato disposto fra consumismo e incremento demografico, con le conseguenze connesse in termini di cambiamenti climatici, perdita di produttività agricola, inquinamento, condizioni favorevoli alla diffusione esplosiva di nuove pandemie, è la peggiore minaccia per la vita di miliardi di persone.

Stanno finalmente guadagnando visibilità i problemi di sostenibilità biologica, economica, sociale, culturale che pesano sull’esistenza dell’umanità – eppure si tarda e si fatica troppo a prendere e attuare decisioni collettive conseguenti: non è che c’è qualcosa di insostenibile anche nell’organizzazione politico-istituzionale umana?

Assolutamente sì. Il successo straordinario del modello consumista ha prodotto una enorme inerzia dei meccanismi di produzione e consumo e della finanza che li sostiene, che ha subordinato il ruolo della politica in termini di organizzazione e finalizzazione della produzione agli obiettivi di benessere della popolazione che dovrebbe rappresentare. Di fatto la politica, e attraverso essa i cittadini che dovrebbe rappresentare, risulta asservita ai suoi stessi strumenti che hanno preso il sopravvento. Questo è il motivo per cui l’azione politica concreta si dimostra così incapace di scelte coerenti con i suoi stessi obiettivi. È emblematico il caso delle Conferenze sul Clima, le famose COP, nate per contrastare i cambiamenti climatici attraverso la riduzione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera; durante tutti i 26 anni di incontri annuali, sono continuati a crescere i consumi di carbone, petrolio e metano, e di conseguenza le concentrazioni di CO2 hanno raggiunto i livelli più alti degli ultimi 2 milioni di anni (410 ppm). Le soluzioni tecnologiche proposte sono più orientate al mantenimento del vecchio modello che alla soluzione del problema. È evidente la difficoltà della politica ad accettare la necessità di un punto di svolta per superare quel modello di sviluppo di cui è figlia, ponendosi in contrasto con gli interessi di quel modello finanziario e tecnologico di cui si è trovata ad essere strumento anziché agente dominante e regolatore.

Ci aiuti per cortesia, pensando alla sua esperienza, a costruire una risposta collettiva a questa domanda: che cosa è indispensabile sapere e cosa è indispensabile imparare a fare per un essere umano oggi?

La risposta è scritta nel rapporto delle Nazioni Unite Millennium Ecosystem Assessment (2005). Il percorso che si sta seguendo riguardo alle emergenze globali è il “Global Orchestration” che raffigura una società globalmente connessa, attraverso standards e modelli generali, nella quale i problemi ecosistemici globali sono gestiti da istituzioni sovranazionali attraverso un approccio reattivo. Il limite di questo approccio, come evidenziato nel sopracitato rapporto, sta nella difficoltà ad affrontare crisi che evolvono in modo rapido ed a velocità crescente, che lo rendono vulnerabile rispetto a sorprese emergenti da ritardi nelle azioni o inattesi cambiamenti regionali sia sul piano socio-economico che ambientale. Quanto descritto è esattamente ciò che è accaduto nella COP26, e nei precedenti 25 anni di trattative sempre costrette ad inseguire a un passo più lento rispetto all’evolversi della situazione. Il risultato è stato l’aggravarsi dei problemi ed una riduzione del tempo a disposizione per risolverli.

Occorre affiancare alla Global Orchestration uno scenario del tipo Adaptive Mosaic proattivo e su base localeche già si sta affermando a livello internazionale rispetto al TechnoGarden (risposta esclusivamente tecnologica senza modifica del modello) come la chiave per far partire la “Transizione Ecologica”. Il cittadino, visto il subordine in cui la politica è scesa rispetto ai mercati, deve informarsi e conoscere l’esistenza di strutture finanziarie ed imprese green, ed imparare a “votare con il portafoglio”: scegliere prodotti finanziari e beni di consumo, solo fra quelli che dimostrino una provata attenzione alla sostenibilità in termini di certificazioni biologiche, etiche (no lavoro minorile ecc.), prodotti stagionali e a chilometro zero (almeno di produzione nazionale). Aderire al processo in rapida espansione anche in Italia delle Energy e Green Community, per l’autoproduzione di energia rinnovabile e la gestione sostenibile del territorio, coinvolgendo gli amministratori locali. Esistono molti siti internet sull’orientamento al consumo sostenibile e la costituzione di Green Community, che sono inoltre sostenute economicamente da banche etiche e dal PNRR.

Letture per approfondire. Di Andrea Masullo: Qualità vs quantità. Dalla decrescita a una nuova economia, Orme editore, 2013; La sfida del bruco. Quando l’economia supera i limiti della biosfera, Franco Muzzio Editore 2008; La Terra è casa tua. Consigli pratici per un vivere sostenibile, Ancora 2008.

Chi volesse reagire a queste risposte, ponendo altre domande a Andrea Masullo, ci scriva a formazione@rinnovabili.it. Alla luce delle sue riflessioni, noi gli poniamo queste ulteriori questioni che valgono anche per tutti i nostri lettori:

Quali motivazioni strutturali, e non meramente contingenti, vede nell’asservimento della politica, cioè della ricerca del bene comune, ai suoi stessi strumenti, come lei ha messo così bene in evidenza?

Sarebbe d’accordo nell’individuare anche ragioni di tipo istituzionale che hanno a che vedere con il permanere delle “ragioni di Stato” come determinanti fondamentali per la vita interna e esterna delle comunità politiche umane?

Se cambiare modello di sviluppo implica cambiare regole, norme e indirizzi politico-istituzionali oltre che abitudini individuali, non è strutturalmente impossibile farlo in un mondo di Stati tendenzialmente accentrati, in competizione tra loro e anche per questo in balia di interessi privati ormai spesso più grandi persino degli Stati di taglia continentale?

Quali pratiche decisionali e quale organizzazione, a livello globale, secondo lei risponderebbe pienamente a criteri di funzionamento democratico?

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