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di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo
Una classe scolastica, in quanto luogo di convivenza tra persone diverse, vede emergere inevitabilmente questioni collettive autentiche ed è quindi il contesto ideale per fare esperienza dell’affrontare problemi in gruppo, aiutando ciascun individuo a maturare competenze civiche e di ricerca trasferibili in ogni altro contesto di vita sociale e vitali per la sostenibilità della società stessa. Eppure, ci sembra che la pratica scolastica faccia ancora troppo debolmente leva su questa potenzialità. Può essere utile provare a spiegarne la ragione di fondo e, dal nostro punto di vista, vediamo due modi per farlo: li riassumiamo brevemente per motivare una prima proposta di pratica di classe che può rispondere strutturalmente a questa esigenza educativa.
Problemi e Istituzioni
La prima spiegazione guarda alla relazione tra problemi e istituzioni che si tende a instaurare implicitamente nei contesti educativi scolastici. In un’ottica filogenetica è evidente che, nella storia e nella struttura della relazione tra esseri umani, le istituzioni tendono a fissare gli equilibri della convivenza sociale mentre i problemi tendono a mutarli. Ora, nell’esperienza scolastica tanto i docenti quanto alunni e studenti si muovono in uno spazio di convivenza che in parte è effettivamente fissato istituzionalmente a priori, e in parte è percepito come tale anche oltre la realtà dei fatti. Ciò rispecchia lo stereotipo culturalmente diffuso in base al quale la convivenza civile e la ricerca di problemi e soluzioni collettivi hanno il proprio quadro fisso nel diritto e nelle istituzioni esistenti.
Questo comporta investimenti educativi immensi per sviluppare la propensione e l’abilità a rispettare leggi, regole, procedure, ordinamenti già dati e da conoscere in modo sempre più dettagliato, e una sottovalutazione sistematica dell’importanza di comprendere le esigenze molteplici e i problemi concreti da cui ciascuno di essi è nato e sempre nasce. Il risultato è che spesso il rispetto di leggi, regole, procedure, ordinamenti è maturato con metodi surrettiziamente (e involontariamente) coercitivi che non consentono né di vederne i limiti né di mantenerne vivo il senso e, ancor peggio, che inducono, di fronte a problemi nuovi, a lasciare in secondo piano come possibile strategia l’elaborazione di nuove istituzioni, anche perché spesso si ignorano le modalità per modificare o sostituire le precedenti e si opta perciò per eluderne individualisticamente le conseguenze indesiderate.
Soluzioni pre-confezionate
Il secondo modo di spiegare come mai la pratica scolastica fatichi a valorizzare appieno il contesto di classe come campo di esperienza nell’affrontare problemi collettivi guarda invece all’esplicita impostazione didattica che caratterizza tutti i livelli scolastici. Nonostante l’attenzione teorica che da qualche decennio si va sviluppando in merito alle implicazioni pedagogiche di una crescente consapevolezza della natura complessa e incerta della realtà e, quindi, della capacità umana di conoscerla, rappresentarla e viverla, i contesti educativi formali continuano a strutturarsi legislativamente, organizzativamente, culturalmente e commercialmente attorno a precisi messaggi o obiettivi pre-determinati. Ne è al contempo controprova e causa profonda il predominio, nell’intero sistema educativo, di processi di valutazione dei risultati che si fondano proprio sulla conformità a quegli obiettivi pre-determinati. E ciò vale tanto per il singolo alunno/studente quanto per i docenti, gli Istituti e i sistemi nazionali nel loro complesso.
Si tratta di fattori strutturali che tendono a riprodurre un modello di scuola prevalentemente trasmissivo, a prescindere dal fatto che si lavori in base a una tradizionale progettazione per contenuti o ci si sforzi di introdurre una “innovativa” progettazione per abilità e competenze, attenta alla coerenza metodologico-didattica. Il punto resta, infatti, che imparare ad affrontare problemi collettivi implica per definizione imparare a confrontarsi con l’indeterminato e, perciò, creare condizioni che stimolino l’emergere di qualità soggettive a loro volta, per definizione, non pre-fabbricabili e anche, potenzialmente, divergenti dalle intenzioni iniziali dell’educatore stesso: se non si accetta questa sfida, traguardi come l’autonomia creativa, lo spirito d’iniziativa, la capacità empatica e la partecipazione solidale sono sviliti e ridotti a formule astratte prive di alcun senso autentico…
Istituire la classe viva
Ripartiamo allora dai problemi e domandiamoci se e in che misura è possibile trasformare il contesto educativo in un’effettiva comunità civica e di ricerca composta tanto dagli studenti quanto dai docenti. Ci sembra inevitabile rispondere che, per farlo, è necessario istituzionalizzare in qualche modo nella vita di classe un tempo e uno spazio di esperienza e esercizio autentico della facoltà di riconoscere e affrontare come collettività che si autoregola le questioni di interesse comune che vanno emergendo. Tali questioni non saranno solo quelle strettamente limitate alla classe, perché dovranno essere aperte a curiosità, domande e proposte di iniziativa su temi di dibattito pubblico, alimentate anche da ciò che si va insegnando e imparando nelle varie materie: perché la classe, come ogni altra comunità umana, non è un sistema isolato e fa parte di molteplici altre comunità (dalla scuola al locale, regionale, nazionale, europeo, mondiale…).Iniziare a lavorare lungo questa linea direttrice significa sviluppare una prassi che abbiamo definito di “Riflessione e deliberazione collettiva” e che descriveremo nel dettaglio nel prossimo articolo, dove proveremo anche a fornirvi indicazioni operative per adattarla e sperimentarla nei vostri contesti.
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