Digitalizzazione, tecnologia, strumenti, utilità: imperativi indiscutibili del nostro tempo, in apparenza. Ma che farne educativamente? Ripartiamo insieme dai fini.
di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo
La fine del XX secolo è stata segnata dal forte senso di necessità, per la scuola, di adeguarsi alla grande rivoluzione tecnologica dell’automazione informatica. L’inizio del XXI secolo ha ulteriormente approfondito la sfida in termini di “digitalizzazione”, di “iperconnettività” e “internet delle cose”, ultimamente anche di “metaverso”. Ma siamo sicuri che alla scuola spetti il compito di inseguire i cambiamenti tecnologici, attraverso ondate di nuove infrastrutture, nuovi apprendimenti e nuove tematiche specifiche che di decennio in decennio si adattano a un ritmo di innovazione sempre più frenetico e tendenzialmente guidato da criteri di competitività produttivo-commerciale o di sicurezza geopolitica? A noi sembra ben poco sostenibile che un tale approccio venga definito “educativo”: a meno di appiattire il termine sul suo significato meramente autoritario e conformante.
Nel presente articolo vogliamo provare a fornirvi al contrario alcuni spunti di riflessione e di attività didattica che tengano presente il significato emancipatorio, generativo dell’educare, il cui valore prioritario dovrebbe essere la crescita della capacità di mettere in questione, di problematizzare. Ogni essere umano odierno ha esperienza diretta e fonda la propria esistenza materiale sull’uso di “strumenti” e “manufatti” che sono prodotto del nostro ingegno e la cui esistenza si fonda sull’utilizzo di una qualche forma di energia. Ed è attorno a questo dato di fatto di enorme rilevanza biologica, sociale, etica e politica che ruotano i seguenti spunti di attività. Essi non concernono esclusivamente la “tecnologia” in quanto materia del curricolo nel primo ciclo scolastico, ma la pedagogia nel suo complesso, in entrambi i cicli, e trasversalmente a ogni disciplina. Perché mirano appunto a problematizzare quel campo di saperi pratici e teorici sulle tecnologie che ogni essere umano, fin dalle prime ore di vita, va mano a mano acquisendo dalla propria esperienza quotidiana. Mettere in questione, in questo campo, è particolarmente arduo e importante, specie in un’ottica civica, dato che la dipendenza da tecnologia e la dirompenza dei suoi continui cambiamenti caratterizza in pratica ogni ambito della vita umana odierna. E questo fatto storico peculiare della contemporaneità, fa al contempo un grande servizio e un grande torto all’idea di “tecnologia” stessa: elevata al rango supremo dell’interesse e del prestigio di cui possono godere le diverse attività umane nella società, ma proprio per questo trasformata in un paradossale fine in sé che ne perverte il senso antropologico e biologico di “mezzo” al servizio di finalità che la società umana stessa dovrebbe mirare a negoziare e stabilire. Questo rovesciamento paradigmatico del mezzo in fine è a nostro avviso il problema centrale che richiede attenzione educativa nel senso emancipatorio sopra richiamato, e che ispira le seguenti proposte.
Si tratta di tre spunti di attività, fra loro complementari ma indipendenti, atti a stimolare lavori di dibattito di gruppo oppure di riflessione individuale, che possono dare luogo a differenti tipi di prodotti, esiti, risultati documentabili. Non ci interessa ingessare la proposta indicandovene uno piuttosto che un altro: quello dipende dalla sensibilità di ciascun insegnante e dalle preferenze di ciascun gruppo classe. Ci interessa però far comprendere le questioni di fondo che distinguono ciascuna proposta.
REPERTORIO DELL’UTILE
La prima questione è proprio la capacità di riconoscere ciò che è correntemente trattato come strumento, per domandarsi poi: a che serve, a chi serve? Anzitutto, significa lavorare fin dal primo ciclo a riconoscere, nominare e repertoriare oggetti che sono culturalmente identificati come “strumenti”: può essere un’attività svolta attraverso uscite o riflessioni alla “caccia” di quelli che ci circondano nella quotidianità, oppure attraverso una ricerca mentale collettiva o individuale. Questa attività può portare a un glossario, a una “cassetta degli attrezzi” che contiene e rappresenta in modo simbolico tutti gli strumenti via via identificati… L’attività continua ad avere senso anche nel secondo ciclo, specie nella misura in cui può stimolare a scoprire livelli successivi di astrazione nell’indagine, fino a cogliere che sono “strumenti” anche le procedure, le istituzioni e ogni fenomeno non per forza materiale che è concepito o sfruttato per una o più finalità determinate. Questa “strumentalità” è la base di un approccio “tecnologico” al mondo.
Ma il punto è che per ciascuno strumento individuato (inclusi quelli più astratti!) è necessario stimolare la riflessione (che può prendere anche forma scritta) su questioni del tipo: su quali tipi di energia si basa? A cosa serve tipicamente/di solito e chi se ne serve tipicamente/di solito? Saprei dire più o meno da quando è stato usato o inventato come strumento? E, passando dalla visione univoca e tipizzante a una visione sempre più plurale e complessa: quanti e quali diversi usi possono essere fatti di quello stesso strumento? Per quali differenti fini? In che misura contrastano fra loro? Quali tra questi sono fini che interessano soggetti particolari e quali interessano invece tutti e possono definirsi “pubblici”?
Non esiste infatti solo una pluralità di strumenti riconosciuti come tali, ma esiste per ciascuno una pluralità di soggetti che li utilizzano e, quindi, una pluralità di fini e anche una pluralità di effetti secondari o non intenzionali, rispetto ai fini individuati. Si pone perciò un’ulteriore questione che è utile affrontare sotto forma di discussione del gruppo: esistono forme di controllo pubblico di ciascun determinato mezzo, per minimizzarne i possibili effetti indesiderabili per tutti? Data la parte di imprevedibilità di questi effetti, come mettere in pratica e quali limiti dare al principio di “precauzione” nell’utilizzo di quel determinato mezzo?
STRUMENTALIZZABILITÀ DEL MONDO
Ma non esistono solo strumenti classificati come tali, possiamo riconoscere più in generale in noi stessi e negli altri esseri umani la tendenza a trattare come strumento, cioè come mezzi utili a raggiungere determinati fini, qualsiasi cosa, vale a dire qualunque aspetto del mondo. Anzi, questo equivale proprio a “cosificare” il mondo, cioè a trattarlo nel suo complesso o in sue singole parti come oggetto subordinato alle proprie intenzioni soggettive, come cosa di cui servirsi – esseri viventi e altre persone (soggetti!) inclusi. Anche in questo caso il primo passo, sia in termini di curricolo verticale sia di sviluppo dell’attività con un medesimo gruppo, è mettersi di fronte a una domanda che aiuta a focalizzare il tema in riferimento a se stessi – ad esempio: che cosa serve a me, cioè di chi e di che cosa mi servo, nella mia vita quotidiana? Si può associare la domanda alla sfida a trovare il maggior numero possibile di risposte, per associare poi ciascuna di esse ai “perché”, cioè agli scopi consapevoli cui le varie cose individuate sono “asservite”.
Il passo successivo è spostare la riflessione, dai propri mezzi d’uso quotidiano che aiutano a prendere consapevolezza dei propri fini, alla possibilità di raggiungere i medesimi fini con altri mezzi (cambiamento tecnologico), o di cambiare i propri fini o di sostituire gli strumenti cui siamo abituati e da cui materialmente dipende la nostra normalità. La conclusione di questo percorso che potremmo anche chiamare di “cartografia” personale delle proprie dipendenze e abitudini “strumentali” è stimolare la riflessione critica personale oppure sotto forma di discussione di gruppo sulle seguenti questioni: in che misura posso controllare o fare a meno di questa prassi generale, io individuo, e in che misura invece ne dipende la mia sopravvivenza? In che misura ritengo personalmente accettabile che altri mi trattino in questo modo? E collettivamente, è evitabile, è limitabile e in basi a quali criteri è giudicabile questo comportamento? Inoltre: quali sono le strumentalità “astratte” su cui si fonda il vivere assieme, la capacità della società umana di riprodurre i mezzi di sostentamento e sviluppo? Occasioni per riflettere sul significato pratico dei concetti di “lavoro”, “divisione del lavoro”, “merce”, “denaro”, “mezzo di produzione”, “processo produttivo”, “tecnica”, “macchina”, “automazione”…
COSTI E BENEFICI
L’idea di “strumento”, di “utensile”, di “mezzo” comporta sempre una qualche intenzione, volontà, obiettivo perseguito come vantaggioso sotto qualche punto di vista. Ma la realtà è complessa e ogni azione comporta anche costi, svantaggi, rischi e, come abbiamo già detto, conseguenze meno facilmente prevedibili. Un’ulteriore attività pertinente può allora consistere nello scegliere in classe uno strumento ben noto e d’uso comune per riflettere in gruppo o individualmente su quali abilità personali mi serve acquisire per utilizzare adeguatamente quello strumento e su quali abilità, invece, devo trascurare o addirittura finisco per perdere abituandomi a usare quello strumento. Che cos’altro potrei fare per raggiungere lo stesso scopo se non ci fosse quello strumento? Per quale scopo originario è nato, per quale scopo si tende a usarlo oggi – problematizzare, infatti, significa sempre anche storicizzare i propri oggetti di riflessione. Ne nasce una serie di altre questioni che possono stimolare il lavoro educativo a fare il ponte tra esperienza individuale e dinamiche sociali, etiche, politiche: queste attività spingono in fondo a porsi il problema di fino a che punto “il fine” giustifica “i mezzi”. Ma anche: fino a che punto gli specifici “mezzi” della tecnologia più in vista nella nostra contemporaneità favorisce conseguenze, risultati, non intenzionali e non necessariamente desiderabili (eterogenesi dei fini)?