La centrale di Fukushima continua la sua battaglia quotidiana con le difficoltà post crisi nucleare
(Rinnovabili.it) – L’11 marzo 2011 un terremoto di magnitudo 9 colpì la costa nord-orientale del Giappone, scatenando a pochi minuti di distanza un violento tsunami. L’onda di maremoto, che si abbatté sulle coste nipponiche, causò la morte di quasi 19.000 persone e innescò la più grande crisi nucleare mondiale dopo Chernobyl: il disastro di Fukushima Dai-ichi.
Nella centrale, l’allagamento dei gruppi elettrogeni di sicurezza bloccò i principali sistemi di raffreddamento dei tre reattori attivi, innescando nei giorni successivi il meltdown completo dei noccioli. Il resto della storia è noto: gli alti livelli di radiazioni – l’incidente è stato classificato come un livello 7 sulla Scala INES (la scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici) – hanno costretto decine di migliaia di persone a evacuare, trasformando città e villaggi intorno alla centrale in zone fantasma. E oggi, a otto anni precisi dall’evento, viene da chiedersi quanto lontana sia la normalità per quei territori.
La TEPCO, la società che possiede l’impianto, ha gestito la crisi nucleare tra reticenze e omissioni. I funzionari continuano a lavorare per contenere i danni e provvedere al risanamento del sito ma l’impresa è colossale: per portare a compimento la sola bonifica si stima siano necessari altri 30-40 anni e una spesa di almeno 75 miliardi di dollari.
Oggi, la zona del disastro è un enorme cantiere e le operazioni di pulizia procedono a rilento, soprattutto per le difficoltà tecniche legate al recuperare il combustibile fuso nei reattori. Nelle ultime settimane sono state impiegate delle braccia robotiche per sollevarne alcuni pezzi dal fondo dell’Unità 2 e testarne la fragilità. Ma l’estrazione non inizierà fino al 2021. E solo nel 2023 dovrebbe iniziare la pulizia dei bacini di raffreddamento.
Un secondo problema ancora tutto da risolvere riguarda l’acqua contaminata contenuta nella centrale di Fukushima (i residui dello tsunami, quella impiegata per il raffreddamento dei reattori e quella proveniente da precipitazioni e falda sotterranea). Lo spazio nei 900 serbatoi impiegati per lo stoccaggio provvisorio si sta esaurendo e il Governo sta valutando da tempo la possibilità di riversare queste acque nell’oceano Pacifico una volta decontaminata. Dalle ultime analisi effettuate dalla TEPCO risulta però che l’80% di quest’acqua contenga ancora sostanze radioattive al di sopra dei livelli legali.
Per contrastare le infiltrazioni esterne è stato costruito un enorme muro di ghiaccio del valore 320 milioni di dollari: secondo un gruppo di esperti, incaricato dal Governo giapponese di redigere una relazione sul progetto, la struttura sotterranea svolge il suo lavoro in maniera parziale: la parete blocca circa la metà dei flussi ma non risolve del tutto il problema. L’operatore però vede il bicchiere mezzo: “Nel 2017/18 [l’acqua contaminata che si raccoglie all’interno degli edifici dei reattori] è stata ridotta a 220 metri cubi al giorno in media rispetto ai 470 metri cubi di quattro anni fa”, ha affermato la TEPCO. “Pensiamo di poter arrivare a 150 metri cubi entro il 2020”.
Di tutt’altro parere, Greenpeace secondo cui l’obiettivo di governo e società di risolvere il problema idrico entro il 2020 “non è mai stato credibile.” Secondo l’ong, il ricondizionamento di tutte le acque contaminate richiederà da cinque a sei anni e ancora non si conosce a pieno l’efficacia del trattamento. Senza contare che “i volumi continueranno ad aumentare nei prossimi anni”.
Greenpeace ha messo in luce un aspetto ancor più allarmante: nonostante gli enormi sforzi di decontaminazione, si rilevano ancora alti livelli di radiazioni sia nelle zone di esclusione che nelle aree aperte (leggi il report On the Frontline of the Fukushima Nuclear Accident: Workers and Children). Questo significa un problema diretto per quanti sono impegnati nelle operazioni di bonifica nei villaggi intorno alla centrale. Spiega Shaun Burnie, esperto sul nucleare di Greenpeace Germania. “Nelle aree in cui operano alcuni di questi addetti alle bonifiche, i livelli di radiazione rilevati sarebbero considerati un’emergenza se fossero registrati all’interno di un impianto nucleare. Questi lavoratori – afferma Burnie – non hanno praticamente ricevuto nessuna formazione sulla tutela da radiazioni. Poco protetti e mal pagati, sono esposti ad alti livelli di radiazioni e se denunciano qual è la situazione rischiano di perdere il posto di lavoro”. Il tutto mentre il governo ha già dato il via ai primi re-insediamenti.
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