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COP25: falliscono i negoziati sul clima in un mondo spaccato a metà

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Credit: UNclimatechange (CC BY-NC-SA 2.0)

COP25 di Madrid, accordo al ribasso per i negoziati più lunghi della storia

(Rinnovabili.it) – Delusione ed amarezza accompagnano la chiusura della COP25 di Madrid sui cambiamenti climatici. Sedici giorni di negoziati non sono bastati alle Parti per trovare un accordo sulle principali questioni del vertice ONU, rimandando al prossimo anno i temi più scottanti.

“Sono deluso dai risultati della COP25”, ha dichiarato il segretario generale, Antonio Guterres. “La comunità internazionale ha perso un’importante opportunità per mostrare una maggiore ambizione in materia di mitigazione, adattamento e finanza per affrontare la crisi climatica”. Ma per quella che passerà alla storia come la più lunga COP climatica della storia, non si tratta di un semplice fallimento. Quello che è emerso dal summit è una spaccatura apparentemente inconciliabile tra due blocchi di nazioni, ognuno saldamente arroccato sulle proprie posizioni: da una parte i Paesi più vulnerabili e poveri, supportati dall‘Unione Europea (con le dovute eccezioni interne), dall’altra le grandi potenze mondiali come USA, Brasile, Australia, Cina, Arabia Saudita, ciascuna pronta a fare muro su una questione diversa.

Il risultato? Neppure i due giorni extra di lavoro sono riusciti a risolvere le divergenze e la maratona negoziale si è chiusa con un accordo al ribasso che tradisce l’urgenza all’azione richiesta dal consesso scientifico (leggi anche IPCC: servono sforzi incredibili per limitare riscaldamento a 1,5 °C).

Il nodo dei mercati del carbonio (articolo 6)

Uno dei compiti principali della COP 25 di Madrid era quello finalizzare l’articolo 6 dell’Accordo di Parigi. L’articolo in questione riporta i principi che consentirebbero alle Parti di cooperare all’attuazione dei contributi determinati a livello nazionale (NDC) per il taglio delle emissioni. Nella pratica, fornisce un quadro contabile per poter trasferire da un paese all’altro le riduzioni delle emissioni (i cosiddetti ITMO, ”risultati di mitigazione trasferiti a livello internazionale”). Si tratta, in parole povere, di un aggiornamento dei vecchi meccanismi di cooperazione del protocollo Kyoto, CDM su tutti, che permetterebbe tra le altre cose di collegare tra loro strumenti nazionali o regionali di scambio emissioni (come il sistema ETS europeo) al fine di creare un mercato comune e transfrontaliero del carbonio, determinando un prezzo globale per la CO2. Non solo: l’articolo propone anche un meccanismo centrale delle Nazioni Unite per il commercio dei crediti derivanti dalla riduzione delle emissioni generata attraverso progetti specifici. 

Su questo fronte un’alleanza di 31 Paesi, tra cui le grandi economie europee, sotto l’egida del Costa Rica si è battuta per ottenere regole rigorose che garantissero l’integrità di un futuro sistema globale di scambio del carbonio. Si sono dovuti scontrare con l’irremovibilità di nazioni come Brasile ed Australia, entrambe decise a inserire nel meccanismo delle scappatoie, come il doppio conteggio dei crediti o il riutilizzo delle quote accumulate con il vecchio CDM. E dal testo dell’articolo 6, nel frattempo, sono stati rimossi tutti i riferimenti ai diritti umani.

Spiega Gilles Dufrasne, responsabile delle politiche di Carbon Market Watch: “Attualmente, i mercati del carbonio rischiano di creare enormi scappatoie per raggiungere gli obiettivi climatici sulla carta senza effettivamente ridurre le emissioni: si tratta di un imbroglio. Alcuni paesi vogliono sfruttare il passato per barare sul futuro, quando ciò di cui abbiamo bisogno è un’azione reale per adeguarci alla portata dell’emergenza climatica”. L’associazione ha calcolato che, se si inserissero tali escamotage, vi sarebbero crediti coperti dall’articolo 6 – tra vecchi e nuovi – per quasi 4,65 miliardi di tonnellate di CO2 coperti dall’articolo 6: il loro utilizzo porterebbe a un ulteriore riscaldamento dello 0,1% piuttosto che a una riduzione delle emissioni. “Potrebbe essere la bomba al carbonio dell’accordo di Parigi”, ha aggiunto Sam Van den Plas di Carbon Market Watch.

L’impegno degli NDC nascosto sotto il lenzuolo della “massima ambizione”

Il processo avviato dall’Accordo di Parigi è imperniato sugli NDC, ossia i contributi di riduzione delle emissioni che ciascuna nazione dovrà presentare alla COP26 del 2020. Ad oggi, la maggior parte di questi piani è completamente fuori target rispetto gli obiettivi di contenimento del riscaldamento globale (leggi anche G20 sotto accusa nel rapporto sul clima: nessun Paese si sta impegnando). Guterres e un solido gruppo di Paesi, guidato dalle Isole Marshall, aveva sperato fino all’ultimo di poter presentare già alla COP25 di Madrid dei contributi nazionali rivisti e più ambiziosi. O, nella peggiore delle ipotesi, ottenere un serio impegno per migliorare gli NDC. 

Tuttavia, su insistenza degli Stati Uniti, del Brasile e della Cina, il documento finale del vertice è stato fortemente indebolito, sottolineando come, per il 2020 i Paesi dovranno “comunicare o aggiornare” i loro piani climatici, prendendo in considerazione l’attuale “significativo divario”, al fine di “riflettere la loro massima ambizione possibile”.

Buco nell’acqua anche per il capitolo “loss and damage”. I negoziatori erano stati incaricati di rivedere il Meccanismo internazionale di Varsavia (WIM), istituito nel 2013 per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico nelle realtà più vulnerabili ed economicamente arretrate (conosciuto anche con l’etichetta “perdita e danno”). I paesi ricchi, USA in primis, continuano ad essere restii al fornire finanziamenti a lungo termine alle nazioni più vulnerabili che, di contro, si sono dimostrate più irremovibili che mai: la richiesta è stata di 50 miliardi di dollari l’anno fino al 2022, da aggiungere al celebre fondo da 100 miliardi. Invece di offrire “nuovo ed ulteriore” denaro però, il testo finale della COP25 “spinge semplicemente” i paesi sviluppati a “ridimensionare” i finanziamenti.

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