(Rinnovabili.it) – Erano le 16 di sabato quando il ministro degli Esteri indiano, Prakash Javadekar, entrava nella sala della plenaria della COP 21 gongolando: «deal, deal, deal!» [«accordo, accordo, accordo!» ndr]. Poi, però, l’approvazione effettiva è scalata di quattro ore. La sala del centro Le Bourget brulicava di delegati al telefono, si formavano piccoli gruppetti in conciliabolo e la tensione dell’attesa cresceva. La verità è che, ad un passo dal traguardo, l’accordo è stato sul punto di fallire. A minacciare una seconda Copenhagen è stata la delegazione statunitense, che scorrendo il testo definitivo ha scovato una parola sgradita: shall (deve) al posto di should (dovrebbe). Con questa semplice espressione, definita dall’ONU come un «errore di battitura», è la chiave di tutta la trattativa, o comunque di una buona parte. Il verbo all’indicativo presente, infatti, costringeva gli USA e altri Paesi ricchi a effettuare specifici tagli delle emissioni. Questa parola, secondo l’analisi di Climate Home, avrebbe rinforzato decisamente l’accordo di Parigi, vincolando le economie sviluppate ben più di quanto avevano previsto.
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L’articolo 4.4 del documento diffuso sabato mattina, diversamente dalle bozze precedenti, recitava:
I Paesi sviluppati devono continuare ad assumere un ruolo guida impegnandosi su obiettivi assoluti di riduzione delle emissioni per l’intera economia. I Paesi in via di sviluppo dovrebbero aumentare i loro sforzi di mitigazione, e sono incoraggiati a muoversi nel tempo verso una riduzione delle emissioni per l’intera economia od obiettivi di limitazione alla luce delle diverse situazioni nazionali.
I rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo hanno intravisto una opportunità: la convenzione ONU, fin dal 1992, sostiene che gli Stati ricchi devono guidare il processo, dunque perché questa parola non si sarebbe dovuta accettare?
In pochi credono si sia trattato davvero di un refuso. Piuttosto pare che sia tutto frutto di una marcia indietro degli Stati Uniti dovuta al panico dell’ultimo minuto.
«Non è stato un errore di battitura – ha confermato il delegato malese, Guardial Singh – Quando mandano i droni a bombardare e poi chiedono scusa, quello è un errore. Questo è stato negoziato alla fine, se n’è discusso ieri notte».
È stata la Cina a salvare gli USA e tutta la cordata dei Paesi ricchi da impegni più stringenti, schierandosi al loro fianco e rivelando un nuovo asse Washington-Pechino capace di dominare la trattativa sul clima, spingendone i risultati al minimo comun denominatore. Così nessuno si farà male, a parte i Paesi poveri.