(Rinnovabili.it) – Giovedì 6 dicembre è ricorso un anniversario importante: la giornata ha segnato i 30 anni da quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la sua prima risoluzione sui cambiamenti climatici, con cui è stata approvata l’istituzione del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (UNFCCC) La preoccupazione che emerge dal quel primo documento sulla “protezione del clima globale per le generazioni presenti e future dell’umanità” è la stessa che si respira oggi nell’International Conference Centre di Katowice, in Polonia, dove fino al 14 dicembre si tiene la 24esima Conferenza della Parti (COP24) sui cambiamenti climatici.
Da lunedì i delegati di quasi 200 Paesi sono a lavoro sul regolamento per l’attuazione del Paris Agreement, vale a dire un insieme di norme tecniche che ne garantisca l’entrata in vigore dal 2020. Si va dalle disposizioni riguardanti la trasparenza, la contabilità e la conformità degli impegni all’uso di meccanismi basati sul mercato, passando per la valutazione periodica dei progressi collettivi.
I negoziatori stanno finalizzando i vari contributi con l’obiettivo di ottenere un primo testo entro domani e riassumere il tutto in un documento di 300 pagine per i responsabili politici che affronteranno la seconda settimana del summit. Far convergere gli interessi di ogni parte in una posizione comune richiede un delicato gioco di equilibri, soprattutto se si pensa alle posizioni di potenze come Arabia Saudita, Stati Uniti e Brasile.
Anche per questo motivo, nei primi sei giorni di COP 24 i progressi negoziali sono molti ma lenti. Ora ad esempio, c’è una prima bozza su quello che dovrebbe esserci nei piani d’impegno climatico, i cosiddetti contributi determinati a livello nazionale (NDC): 9 pagine con 188 parentesi quadre (che indicano aree di disaccordo) che riportano ad oggi le principali caratteristiche degli NDC e il sistema di contabilizzazione, stando all‘analisi di Carbon Brief. Manca invece un nuovo testo sui “tempi comuni” per gli impegni dei Paesi.
A frenare la spinta negoziale è però, in modo particolare, il tema della finanza climatica come spiega bene Climate Home News. Il problema principale è sempre lo stesso: gli aiuti ai Paesi poveri. L’originale testo di 19 pagine e 408 parentesi quadre è stato convertito in due distinte bozze di progetto per un totale di 11 pagine e 185 parentesi, con molti punti lasciati in sospeso.
La cosa certa è che le economie più ricche dovranno versare 100 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti per il clima, pubblici e privati, a partire dal 2020. Quello che ancora non è chiaro è come gestire e rendicontare questo obbligo. Se da un lato alcuni dei Paesi in via di sviluppo vorrebbero che i fondi fossero stanziati assieme ai piani nazionali per il taglio delle emissioni, per gli Stati dell’Unione Europea e il resto delle economie sviluppate legare il proprio bilancio nazionale al diritto internazionale rimane un problema non da poco. Ma come ha ricordato ieri Gebru Jember Endalew, presidente delle delegazioni dei Paesi meno sviluppati “Rappresentiamo quasi un miliardo di persone, quelle meno responsabili dei cambiamenti climatici, ma tra le più vulnerabili ai suoi effetti. Più le nazioni povere dovranno aspettare il sostegno finanziario, maggiore sarà il costo”.