Alla chiusura dei lavori della 24ma Conferenza ONU sul Clima abbiamo raccolto a caldo i commenti di Onufrio, Midulla, Zanchini, Nebbia, Sassi, Muroni, Zorzoli, Mori, le persone più rappresentative nel nostro Paese per ciò che riguarda le questioni trattate a Katowice.
A Katowice poca ambizione, e il tempo stringe
di Giuseppe Onufrio – direttore Greenpeace Italia
Da Katowice, nel centro della zona carbonifera polacca, è arrivato un segnale deludente.
Se da una parte sono state definite le regole per poter confrontare le diverse politiche climatiche – cosa essenziale per andare avanti verso gli obiettivi dell’Accordo di Parigi – si registra uno stallo negli impegni di riduzione delle emissioni. Per quanto il dispositivo dell’Accordo di Parigi preveda la formalizzazione dei nuovi impegni nel 2020, la Conferenza di Katowice ha segnato un arretramento nella volontà politica. Lo si era visto da subito quando USA, Russia, Arabia Saudita e Kuwait – una sorta di alleanza fossile? – avevano rifiutato di “accogliere” l’ultimo rapporto dell’IPCC che poche settimane fa aveva quantificato la differenza degli impatti tra un aumento di 1,5°C e 2°C di temperatura media globale.
La questione della fuoriuscita dal carbone è un tema molto critico in Polonia come in altri Paesi centroeuropei (Germania inclusa) e pone la questione – che è centrale nelle politiche climatiche – di una transizione giusta: alcun settori – a partire dal quello del carbone – dovranno essere progressivamente chiusi, altri dovranno essere sviluppati e questo richiede politiche attente – riqualificazione dei lavoratori, compensazioni e altri ammortizzatori sociali – per mitigare gli effetti sociali di quella che sarà una grande trasformazione.
Di rilevo l’iniziativa della Pontifica Accademia delle Scienze che assieme all’Accademia delle Scienze della Polonia hanno siglato un ‘memorandum’ congiunto chiedendo “una transizione, basata sull’uomo, dal settore critico del carbone non più tardi del 2030” – mentre i sindacati polacchi si esprimevano contro l’ipotesi di “phase-out”. Dunque, il tema non riguarda solo le politiche di Trump – gli USA comunque non sono ancora tecnicamente “usciti” dall’Accordo di Parigi – è più ampio e riguarda questioni di equità sociale.
Se nel 2015 a Parigi vi era un quadro favorevole alla cooperazione internazionale, e al multilateralismo, oggi il quadro è in crisi a causa delle politiche di Trump. La sfida posta dai cambiamenti climatici è epocale, e totalmente inedita nella storia dell’umanità, ma non mancano tecnologie e risorse finanziarie per darle una risposta. L’unica cosa che davvero scarseggia – ce lo ricordano i climatolgi dell’IPCC – è il tempo.
Invece il quadro internazionale – oggi conflittuale – rischia di farci perdere il poco tempo che abbiamo. E a Katowice è quello che, in parte, è successo: abbiamo segnato il passo invece di dare una spinta in avanti. E il tempo stringe.
Prove di forza tra carbonai e “campioni” del clima
di Mariagrazia Midulla – responsabile clima ed energia del WWF Italia
Le Conferenze sul Clima non sono né belle, né brutte, sono necessarie.
Se le si prende seriamente – e per la gran maggioranza dei negoziatori è così, al di là del facile cinismo – sono molto faticose e di rado il risultato corrisponde all’energia profusa. Le peggiori sono quelle in cui si sa, si percepisce, che girano avvelenatori di pozzi. Coloro che mettono in giro voci di fallimento dal primo giorno. Katowice è stata questo.
Che una conferenza in Polonia non sarebbe stata decisiva, viste anche le posizioni del governo attuale, nettamente pro-carbone, lo si sapeva. In più la presidenza era debole, e anche questo si sapeva. Però il rapporto del panel scientifico delle Nazioni Unite, chiesto proprio quando si raggiunse l’Accordo di Parigi, non era stato per nulla rituale nel dire che sì, possiamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, ma per riuscirci dobbiamo accelerare, rendere più incisiva e radicale l’azione per il clima, cioè per la decarbonizzazione. La conclusione della COP24 è stata l’adozione di un “libro delle regole” per rendere operativo l’accordo di Parigi, e anche segnali di volontà di aumentare i target dei Paesi entro il 2020, prima dell’entrata in vigore vera e propria dell’Accordo stesso. Ancora, però, non siamo all’aggiornamento, al rialzo, degli impegni per affrontare l’emergenza climatica.
Fondamentalmente il problema è che ci sono Governi che non hanno capito quanto sia grave la situazione, o fingono di non capirlo per difendere i propri interessi immediati, mentre è in pericolo il futuro di tutti. Ora, ognuno nel suo Paese, dobbiamo incalzare i leader perché si presentino al summit sul clima convocato dal Segretario Generale dell’ONU nel settembre 2019 con obiettivi climatici più in linea con le indicazioni della comunità scientifica o con l’impegno di adeguarli comunque entro il 2020. Qualcosa di meno sarebbe una dichiarazione di incapacità, proprio quando in tutti il mondo si moltiplicano le iniziative dei ragazzi adolescenti che sanno, forse più di chi li governa, cosa rischiano.
Prima di Katowice ci si domandava se sarebbero emersi paesi “campioni” del clima, la risposta è arrivata mercoledì sera con la “High Ambition Coalition”: una coalizione che comprende le Isole Marshall, Fiji, Etiopia, Unione Europea (inclusa l’Italia), Norvegia, Regno Unito, Canada, Nuova La Zelanda, Messico e Colombia, e che si è impegnata a migliorare i piani climatici nazionali prima del 2020 e a incrementare l’azione sul clima a breve e lungo termine. Siamo davvero contenti che ci sia anche l’Italia, il Piano Energia Clima da presentare in bozza entro l’anno sarà la prima occasione per dimostrare un vero cambio di passo.
Il tiepido successo del “Rulebook”
di Edoardo Zanchini – vicepresidente Legambiente
Dalla Conferenza sul Clima di Katowice di positivo c’è che si è arrivati, alla fine di una estenuante trattativa e liti tra i Paesi, ad approvare il “Rulebook” di attuazione dell’Accordo di Parigi. Purtroppo i contenuti sono invece molto deludenti, perché dalla COP24 non è uscita quella chiara e forte risposta all’urgenza della crisi climatica che ci si aspettava dai Governi dopo il grido di allarme lanciato con l’ultimo rapporto dell’IPCC. Eppure la commissione dell’ONU sul cambiamento climatico aveva reso evidenti le conseguenze che il Mondo subirebbe da un aumento delle temperature del Pianeta di 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali in termini di picchi estremi di caldo, forti precipitazioni in alcuni periodi dell’anno, siccità e carenza di precipitazioni in alcune regioni, innalzamento medio globale del mare. Mantenere il riscaldamento al livello più basso previsto dall’accordo di Parigi rappresenta dunque un obiettivo di straordinaria importanza per evitare impatti che riguardano la biodiversità ma anche la salute e la sicurezza umana, la crescita economica.
Per queste ragioni gli ambientalisti chiedevano un chiaro impegno di tutti i paesi a rafforzare entro il 2020 gli attuali obiettivi di riduzione delle emissioni in linea con la soglia critica di 1.5°C, e ad adottare un efficace quadro normativo in grado di rendere pienamente operativo l’Accordo di Parigi e a garantire un adeguato sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo che devono far fronte a devastanti impatti climatici. La COP24 non è riuscita a concordare su questa prospettiva rinviando le decisioni ai summit che si svolgeranno il prossimo anno. E’ chiaro che in un contesto politico come quello in cui ci troviamo, con molti Governi esplicitamente negazionisti rispetto ai cambiamenti climatici o legati economicamente alle lobby delle fonti fossili, essere riusciti a non far saltare il percorso definito nel 2015 – perché questo era il rischio che si correva – è già un risultato, ma le sfide che abbiamo di fronte sono complicatissime e dobbiamo accelerare con gli impegni in tutti i Paesi. Servirà dunque una crescente mobilitazione dei cittadini nei prossimi mesi e un più forte protagonismo dell’Unione Europea, che deve diventare il pilastro di una forte e sempre più larga Coalizione dei Paesi Ambiziosi. Per l’Italia il 2019 sarà un anno molto importante, nel quale dovrà dimostrare di credere davvero negli impegni presi a Katowice, tra l’altro con l’annuncio della candidatura ad ospitare la COP26. Il prossimo anno il Governo italiano dovrà infatti presentare il Piano energia e clima, ossia il nuovo strumento di governance a livello europeo con cui tutti i Paesi sono chiamati a fissare gli obiettivi e le scelte al 2030 indispensabili a fermare i cambiamenti climatici. Bisognerà seguire con attenzione queste decisioni e tenere assieme uno sguardo globale e la spinta a sempre più incisive azioni locali.
Denaro e non ecologia
di Giorgio Nebbia – ambientalista, scrittore e politico italiano
I governanti cominciano ad essere spaventati dal fatto che i cambiamenti climatici comportano dei costi, necessari per risarcire i proprietari della case allagate, dei campi alluvionati, per ricostruire le strade franate, e da anni si incontrano, senza successo, per arzigogolare qualche strumento fiscale o monetario per rallentare il riscaldamento globale. Perché a queste riunioni annuali dei governi non si parla di natura o di ecologia, ma solo di soldi.
Qualcuno vorrebbe farsi pagare per aumentare la superficie delle foreste che assorbono una parte dell’anidride carbonica emessa dai camini; qualcuno vorrebbe, sempre per soldi, produrre più elettricità dal sole e dal vento; qualcuno propone di seppellire i gas serra in miniere sotterranee abbandonate o nel fondo degli oceani o di costruire delle barriere con cui proteggere le zone costiere dall’innalzamento dei mari.
Ma c’è qualcosa di cui nessuno parla: le merci, l’uso delle merci. Qualsiasi oggetto (e servizio) – un etto di carne, una lattina di conserva di pomodoro, un foglio di carta, un minuto di telefonata, un chilometro percorso, eccetera – comporta estrazione dalla natura di materiali (agricoli, forestali, minerali, energetici) che, nella trasformazione e nell’uso immette nell’ambiente residui solidi, liquidi e gas fra cui quelli che alterano irreversibilmente il clima.
Più oggetti, più merci, più modificazioni climatiche.
Ogni persona per vivere, più o meno, ha bisogno di oggetti e contribuisce a peggiorare l’ambiente, irreversibilmente. Non ci sono filtri, resilienza, sostenibilità, e…chiacchiere. Non ci sono altri pianeti da abitare.
D’altra parte l’aumento dei consumi delle merci, e dell’energia, è imposto dalle regole di mercato e considerato come cosa buona per venditori di combustibili, fabbricanti, padroni, lavoratori e commercianti e per gli stessi “consumatori”, intossicati dalla pubblicità, complici e vittime delle violenze alla natura.
Nelle Nazioni Unite serve un cambio di paradigma!
di Pierluigi Sassi – presidente di Earth Day Italia
La COP24 organizzata in Polonia per il contrasto ai Cambiamenti Climatici ha coinvolto 200 Paesi con l’obiettivo di dare efficace attuazione allo storico accordo sul Clima di Parigi 2015.
Per ben 24 volte, dal lontano Summit di Rio del 1992, il mondo si è impegnato a capire come fermare, in modo equo, lo scellerato sfruttamento delle risorse naturali che minaccia la sopravvivenza stessa dell’umanità. Ma quasi sempre nelle COP i governi hanno finito per evidenziare solo le difficoltà che impediscono ogni accordo globale: egoismo economico, esasperata ricerca del profitto, miopia decisionale.
Intanto però il disastro ambientale si è fatto più evidente e la scienza ci ha spiegato con precisione l’imminente irreversibilità del riscaldamento globale con le sue drammatiche conseguenze.
Forse nessuno si è preso la briga di leggere questi rapporti – decisivi per la nostra vita e per quella dei nostri figli – ma di sicuro tutti oggi abbiamo capito che non si tratta di uno scherzo.
Le ondate di eco profughi sulla nostre spiagge, i morti per alluvioni e disastri ambientali, più banalmente le novità delle banane in Sicilia e del vino in Inghilterra, hanno reso tutti consapevoli che gli allarmi lanciati da scienziati e ambientalisti erano fondati e che oggi bisogna fare qualcosa.
Forse per questo nel 2015 a Parigi avvenne qualcosa di straordinario. Papa Francesco promulgava la prima Enciclica Ambientalista della storia e a New York l’ONU definiva i 17 obiettivi di Sviluppo Sostenibile per l’agenda 2030. Per la prima volta il Mondo capiva che salvare l’umanità era più importante che proteggerne l’economia. Sembrava l’alba di un nuovo giorno.
In Polonia però è apparso evidente che la magia di quel momento non è bastata a farci cambiare registro. La politica di Tramp – favorevole al petrolio e contrario all’accordo – ha finito per creare un asse tra paesi produttori come Russia, Arabia Saudita e Kuwait. La comunità internazionale ne è uscita destabilizzata. Lo stesso Paese ospite ha dichiarato apertamente di non voler rispettare obiettivi fondamentali come quelli sulla decarbonizzazione. Ed eco negative sono arrivate a cascata da Australia, Brasile, Turchia e molti altri.
Certo da una COP non si può uscire con un dichiarato disinteresse per la questione. La politica ha le sue regole e un documento è stato scritto. Abbiamo così le prime regole di fondo per attuare l’accordo di Parigi. Il documento però non è né ambizioso né solido e le decisioni sono rimandate al 2020.
Chiunque può vedere questo tragico risultato. Le Nazioni Unite, ma più in generale il mondo non è in grado di affrontare i gravissimi rischi di sopravvivenza che l’umanità sta correndo. È sufficiente il presidente di un solo Paese forte (che nessuno di noi ha votato) per riportare tutti gli altri all’egoismo economico che è causa stessa del disastro.
La crisi economica dalla quale ancora non siamo usciti ci ha insegnato molto bene che la speculazione esasperata genera mostri che nessuno controlla, neanche gli 8 multimiliardari che da soli hanno la ricchezza di 3,5 miliardi di persone.
Quando però la posta in gioco non è la ricchezza bensì la vita credo che diventi urgente un cambio di paradigma. Le Nazioni Unite devono poter esprimere decisioni indipendenti e vincolanti. E mai, sottolineo mai, un solo uomo può essere messo nelle condizioni di impedire il salvataggio in extremis dell’umanità.
COP24, troppa fatica poco risultato
di Rossella Muroni, deputata Commissione Ambiente Camera
Tanta fatica, troppa, per giungere a un accordo sul clima. La Cop24, il vertice mondiale delle Nazioni Unite svoltosi a Katowice in Polonia, alla fine è riuscito a chiudere un’intesa di debole e deludente portata tra i quasi 200 Paesi che hanno partecipato ai negoziati.
Al centro della discussione – che nelle ultime ore ha rischiato di saltare – il cosiddetto ‘Rulebook’, il ‘libro delle regole’; cioè ‘come’ procedere verso gli obiettivi previsti dall’accordo di Parigi e renderlo finalmente attivo. A parte un impegno maggiore sulla trasparenza e il monitoraggio delle azioni anti-riscaldamento globale, la risposta arrivata non ha però rispettato le attese, soprattutto quelle che ormai una diffusa consapevolezza nella società aveva riposto sull’appuntamento climatico. Gli impegni presi a Katowice rischiano di essere più un simbolo da accendere, e portare alla Cop successiva (in questo caso la 25esima, in programma in Cile), che come concreta acquisizione di novità: un “non smettiamo di provarci”.
Tra due anni, la Cop26, proprio quella del 2020, potrebbe essere ospitata dal nostro Paese: ci siamo infatti intelligentemente candidati. Si tratta di un progetto da sostenere, in modo ampio e trasversale, da tutti. Anche perché l’Italia è ben lontana dall’essere un Paese con una politica compiuta della sostenibilità. A quell’appuntamento dovremmo quantomeno arrivarci con un’agenda ambientale che contempli molte delle voci più importanti già spuntate. Con delle azioni già fatte, per dirla semplicemente. E tante altre da presentare alla platea delle Nazioni Unite. Servono decisioni vere. Smettere di rinviare le politiche ‘necessarie’ per esempio per l’economia circolare, puntare sugli investimenti in sviluppo sostenibile (che potrebbero portare in cinque anni 900 mila posto di lavoro). Ci serve – ora – un Piano clima e energia che non può non coinvolgere, ed anzi essere parte integrante, delle politiche economiche, industriali, educative e sociali.
L’Italia – sia come possibile nazione ospitante della Cop26 che come luogo di nascita di tecnologia all’avanguardia, di mediazione per la cooperazione, di modello per la decarbonizzazione – dovrebbe essere una guida e provare a spingere l’Europa a rivedere gli obiettivi al 2030, in chiave più ambiziosa, puntando oltre il 55% di riduzione delle emissioni.
Ed è come il segretario generale dell’Onu commenta la chiusura della Cop polacca – ripetendo cinque volte la parola “ambizione”, e intendendo così le cinque “priorità” che dovranno riguardare la comunità internazionale sui temi della mitigazione, dell’adattamento, della finanza, della cooperazione tecnica, della creazione di capacità e dell’innovazione tecnologica – che l’Italia dovrebbe imboccare la strada della sostenibilità per il futuro del Pianeta, e per il nostro presente.
Il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà
di G.B. Zorzoli – Portavoce Coordinamento FREE
I risultati della COP 24 sono ben sintetizzati dal commento di Clément Sénéchal, di Greenpeace: “si è scavato un fossato tra la realtà dei cambiamenti climatici, messi in evidenza dalla ricerca scientifica, con le drammatiche conseguenze per le popolazioni di alcune regioni del mondo, e l’azione politica”. Dopo lunghe trattative, a Katowice si è infatti riusciti soltanto a mettere nero su bianco i criteri con cui i singoli stati devono calcolare le proprie emissioni e notificare l’effettivo raggiungimento degli impegni presi per la loro riduzione. Criteri che, oltre tutto, diventeranno esecutivi solo nel 2020, cioè cinque anni dopo Parigi.
L’esito della COP 24 può stupire soltanto chi, dopo l’elezione di Trump, si era sforzato di minimizzarne le conseguenze per la lotta al cambiamento climatico: un ottimismo di maniera, purtroppo presente anche nel movimento ambientalista. L’Accordo di Parigi fu raggiunto grazie all’impegno dell’asse Cina-USA. Sui modesti risultati di Katowice ha pesato la coalizione tra USA, Arabia Saudita, Russia, Kuwait, che ha perfino impedito un esplicito giudizio positivo sul recente rapporto dell’IPCC. Con la Cina preoccupata solo di ottenere maggiore flessibilità per i paesi in via di sviluppo.
Che in questo momento non spiri un terreno particolarmente favorevole alle politiche climatiche, lo conferma la scarsa attenzione dedicata dai media alla conferenza di Katowice, che a sua volta riflette, ma nel contempo contribuisce a accrescere, il modesto livello di priorità che i cittadini assegnano a tali politiche. E la responsabilità per la diffusione di questo disinteresse è anche nostra, per non avere compreso la necessità di coniugare la sostenibilità ambientale con la sostenibilità sociale, col rischio – diventato realtà con la rivolta dei gilet gialli – di essere assimilati all’odiata élite, indifferente ai problemi della gente comune.
Mai come oggi il pessimismo della ragione è premessa indispensabile all’ottimismo della volontà.
Le conferme su Parigi, ma ancora troppe incertezze
di Simone Mori – Presidente Elettricità Futura
L’accordo raggiunto sabato sera a Katowice rappresenta un passo avanti del tutto coerente con l’impostazione dell’Accordo di Parigi e che, come tale, non può che presentare punti di forza e di debolezza simili a quelli registrati 3 anni fa. La possibilità di fissare degli obiettivi vincolanti per tutti i Paesi del mondo e, allo stesso tempo, quella di concedere una certa flessibilità nella scelta degli strumenti per le singole nazioni, costituisce un punto di forza considerevole. Un equilibrio che, tra rigidità dei target e flessibilità degli strumenti, appare positivo, se si analizza la variegata scacchiera dei Paesi e le diverse modalità con cui si può contribuire alla riduzione delle emissioni come lo sviluppo delle fonti rinnovabili, l’efficienza energetica negli edifici o la riforestazione. Consentire una flessibilità di scelta degli strumenti permette di disegnare con maggiore puntualità la curva di abbattimento della riduzione del singolo Paese e contribuire così a livello globale al contrasto dei cambiamenti climatici. Quello che invece è mancato all’interno della COP24 è, senza dubbio, un maggior chiarimento sulle tipologie di strumenti che si potranno mettere in atto e una standardizzazione dei parametri utilizzati per misurare le emissioni, al fine di facilitare un confronto fra i Paesi.
Più in generale, la COP24 costituisce un’importante occasione per ragionare a livello globale su questi temi, ma non necessariamente deve essere concepita come la “cartina al tornasole” dell’impegno globale contro il climate change. Ne è una prova il fatto che lo sviluppo delle tecnologie e gli investimenti nelle rinnovabili continuano a crescere e già da tempo stanno guidando il nostro pianeta verso l’abbattimento delle emissioni. Rispetto al 2008 il contributo alla riduzione delle emissioni risulta significativo: l’Europa ha registrato un calo del 15%, l’Italia del 25%, gli Stati Uniti del 10%. La stessa Cina, che ha aumentato le emissioni (del 40%), lo ha fatto in una misura pari quasi a un terzo dell’incremento del PIL (cresciuto nello stesso periodo del 112%). La Cina, quindi, grazie alle tecnologie e allo sviluppo delle fonti rinnovabili, sta migliorando la propria efficienza in termini di intensità energetica. Anche nei Paesi in via di sviluppo, sia a livello economico che ambientale, le fonti rinnovabili rappresentano già oggi la soluzione migliore per soddisfare la crescente richiesta di energia, in considerazione anche del miliardo di persone che non hanno accesso all’elettricità.
In vista del prossimo UN Climate Summit, convocato per la seconda metà del 2019, l’Europa dovrà rafforzare i propri target, con l’ambizioso obiettivo di presentarsi a Santiago, la sede prescelta per il summit, nella veste di leader del processo di decarbonizzazione.