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Il consumo di carne in Italia è triplicato in 60 anni, e non fa bene al clima

Consumo di carne Italia: triplicato in 60 anni, 80 kg a testa

Foto di Cindie Hansen su Unsplash

Consumo di carne Italia: triplicato in 60 anni, 80 kg a testa
Foto di Cindie Hansen su Unsplash

L’iniziativa del WWF con la Meat Free Week dal 26 febbraio al 2 marzo

(Rinnovabili.it) – Gli italiani mangiano tre volte più carne di 60 anni fa: più di 80 kg a testa ogni anno rispetto ai 25 kg dei primi anni ‘70. Tradotto in emissioni, ognuno di noi genera fino a 4,5 kg di CO2 equivalente solo con il consumo di carne in Italia. Cioè il doppio rispetto al seguire la dieta mediterranea, che batte intorno a 2,3 kgCO2eq pro capite. E il 60% dei gas serra in eccesso deriva proprio dal consumo di carne. Lo sottolinea il WWF nella Meat Free Week, la Settimana senza carne che si tiene dal 26 febbraio al 2 marzo.

Un’iniziativa che punta i riflettori sulla sostenibilità o meno delle nostre diete e su come renderle meno pesanti per il clima. Al centro c’è la carne, uno dei cibi con l’impronta di carbonio più alta e un peso relativo sulle emissioni del settore alimentare molto elevato.

Quanto pesa il consumo di carne sul clima?

Secondo l’IPCC, il settore del cibo pesa per il 21-37% delle emissioni globali di gas serra, e di questo volume più della metà (il 56-58%) origina dagli allevamenti. Uno studio pubblicato l’anno scorso su Nature Climate Change ha calcolato che bastano le emissioni del sistema alimentare da sole a farci sforare la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento globale: aumenteranno la temperatura del Pianeta di 0,7-0,9°C entro il 2100. Metà di questo aumento deriva dalla produzione e dal consumo di carne e latticini, e quindi soprattutto dal modello attuale di allevamento intensivo.

Abbattere il consumo di carne permetterebbe di ridurre “del 76% l’uso del suolo legato all’alimentazione, del 49% le emissioni di gas serra legate all’alimentazione, del 49% l’eutrofizzazione (ossia l’eccesso di nutrienti, in particolare composti dell’azoto e del fosforo, nell’acqua e nel suolo) e del 35% l’uso di acqua blu e verde insieme”, spiega Eva Alessi, responsabile Sostenibilità del WWF.

Il nodo degli allevamenti intensivi

Dalla carne al modello produttivo che ci permette e spinge a consumarne in quantità maggiori: sotto la lente, nella Meat Free Week, finisce soprattutto il sistema dell’allevamento intensivo. Oggetto di una proposta di legge firmata dal WWF insieme ad altre associazioni italiane e presentata la settimana scorsa alla Camera.

Gli allevamenti intensivi, infatti, pesano moltissimo in termini di impatto climatico, ambientale e sanitario. Il settore zootecnico è responsabile di circa il 70% delle emissioni nazionali di ammoniaca, 274mila tonnellate sulle circa 345mila imputabili all’intero settore agricolo. Gli allevamenti, in Italia, sono poi la seconda causa di inquinamento da polveri sottili.

C’è poi il tema dell’uso di risorse e il conflitto con l’alimentazione umana. Gli allevamenti intensivi in Italia interessano 700 milioni di capi l’anno, numeri che drenano risorse destinate al consumo diretto umano. A livello globale, nonostante il 77% dei terreni agricoli mondiali sia dedicato all’allevamento, questi generano solo il 18% delle calorie e il 37% delle proteine totali consumate dalla popolazione mondiale.

E ancora: il sistema intensivo di allevamento, che fa larghissimo uso di antibiotici per proteggere il modello di business, è direttamente legato all’incremento dell’antibiotico-resistenza, dichiarata dall’OMS “un’emergenza sanitaria globale”. In Europa si verificano oltre 10mila decessi l’anno per resistenza agli antibiotici, e quasi 1/3 avvengono proprio in Italia. “Un triste primato che probabilmente è dovuto anche all’alto numero di allevamenti presenti nella nostra nazione e dall’abuso che facciamo di questa tipologia di farmaci”, sottolinea il WWF.

Per invertire la rotta, la proposta di legge prevede un piano di riconversione del sistema zootecnico italiano finanziato da un nuovo fondo dedicato, che metta al centro le piccole aziende e incoraggi la transizione verso un modello diverso da quello degli allevamenti intensivi. Anche attraverso una moratoria immediata all’apertura di nuovi allevamenti di questo tipo e all’aumento del numero di capi allevati in quelli già esistenti.

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