Un altro round di negoziati sul clima va in archivio senza aver prodotto le convergenze necessarie. Il rischio fallimento della COP 21 è reale
(Rinnovabili.it) – Altra tornata di colloqui sul clima, altro fallimento clamoroso. Risulta sempre più chiaro che la COP 21 di Parigi non sarà una formalità, palcoscenico dal quale approvare il nuovo accordo globale per reagire ai cambiamenti climatici: potrebbe diventare invece il teatro dell’ennesima figuraccia in mondovisione dei leader di tutto il pianeta, soprattutto dei Paesi ricchi.
È colpa loro, infatti, se non si trovano basi comuni per il patto climatico: tentennano insopportabilmente sui finanziamenti promessi ai Paesi in via di sviluppo. Per loro è questione di vita o di morte, e a quei 100 miliardi di dollari entro il 2020 non vogliono rinunciare. Per questo, o vedono crescere a dovere il Green Climate Fund (istituzione creata apposta in ambito UNFCCC allo scopo di raccogliere i contributi per l’adattamento delle nazioni più povere e a rischio), oppure non firmeranno alcun accordo sulla riduzione delle emissioni. L’aut aut sta bloccando le trattative, e le domande inevase anche al vertice di Bonn sono rimaste le stesse: chi contribuirà al fondo verde per il clima? Quando? In che misura?
«Se non vi saranno misure sostanziali per garantire la transizione – ha detto il presidente francese, François Hollande – i profughi nei prossimi 20 anni non saranno centinaia di migliaia, saranno milioni».
Le buone intenzioni ci sono, secondo Hollande, ma siamo ancora lontani da un accordo giuridicamente vincolante e dal raggiungimento del livello atteso dei finanziamenti: «C’è anche un rischio di fallimento», ammette il presidente del Paese ospite delle COP 21.
Anche per quanto riguarda il taglio delle emissioni, i calcoli stanno raffreddando l’ambiente dopo il tentativo di scaldarlo da parte dei leader con le loro altisonanti promesse. Gli impegni attuali, infatti, sono ben lungi dall’essere sufficienti a mantenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2 °C entro il 2050. Perciò, i Paesi in via di sviluppo hanno chiesto una revisione quinquennale dei piani nazionali di riduzione della CO2, per verificare periodicamente se il mondo è sulla buona strada. Ma l’Unione europea si è messa di traverso, sostenendo che sono sufficienti aggiornamenti ogni 10 anni. Dopo il target 2020, infatti, Bruxelles aspetterà il 2030 per vedere i risultati delle sue politiche. Per Greenpeace, l’atteggiamento europeo potrebbe rendere perfettamente inutile il limite dei 2 °C. Hollande ha sottolineato come la COP potrebbe naufragare se il patto sul clima non conterrà impegni «misurabili, prevedibili, verificabili, trasparenti e con un meccanismo in base al quale essi possano essere rivisti nel corso del tempo».
L’unica cosa su cui sono tutti d’accordo è darsi un obiettivo a lungo termine in quel di Parigi. Ma non è chiaro se esso debba esplicitare dei numeri – zero emissioni di CO2 e 100% di energie rinnovabili – oppure semplicemente una ripetizione del target dei 2 °C, che circa 100 nazioni chiedono di abbassare a 1.5.
Alla fine di settembre, i capi di Stato si riuniranno a New York presso l’assemblea generale delle Nazioni Unite. A metà ottobre è invece in calendario un altro incontro di preparazione alla COP 21 in quel di Bonn, sperando, ma non troppo, che venga prodotto un documento concordato per Parigi.