In Cina da oggi chi inquina danneggiando la salute pubblica e la sicurezza nazionale sarà punito con la pena di morte. Quella intrapresa dal governo centrale sembra essere una vera e propria svolta nella lotta contro i reati ambientali, una delle tante questioni con cui l’esecutivo deve fare i conti. La rilettura delle leggi anti-inquinamento, infatti, impone punizioni più severe e concede ai tribunali il potere di emettere sentenze di morte nei casi più gravi. Il numero delle persone morte prematuramente a causa dell’inquinamento è cresciuto, soprattutto negli ultimi anni, in maniera esponenziale, ma adesso il Paese intende impegnare tutte le forze migliori per arginare il problema.
Proprio pochi giorni fa il Consiglio di Stato cinese ha presentato un decalogo di provvedimenti per affrontare le emergenze ambientali del Paese, cercando di arginare l’inquinamento di aria, suolo e acqua. A questa manovra ha fatto seguito questa nuova interpretazione giudiziaria, che è già entrata in vigore e mette in mano ai giudici armi legali più potenti di quelle gestite fino ad ora. A dissuadere il Paese da uno sviluppo industriale selvaggio che dura da oltre un trentennio potrebbero aver contribuito anche i dati sulla salute diffusi da molte associazioni. Solamente quelli dichiarati da Greenpeace e riferiti al 2011 parlano di 9.900 persone morte tra Pechino, Tianjin e la provincia dell’Hebei a causa dell’inquinamento provocato dalle centrali a carbone, 11.110 affette da asma e 12.100 quelle colpite da bronchite.
La maggiore circolazione di dati e informazioni si è unita anche a una maggiore coscienza della popolazione su questo genere di tematiche, portando all’attenzione la problematica ambientale e conducendo alla chiusura delle fabbriche più inquinanti. Adesso è chiaro che il governo non scherza più: “Tutti devono impegnarsi in questa battaglia” (Reuters.com).