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Chi inquina paga?

Chi inquina paga?(Rinnovabili.it) – Chi inquina paga” era la parola d’ordine con la quale in tutta Europa, e non solo, il movimento ambientalista aveva cominciato a porre all’ordine del giorno, oltre trent’anni fa, la questione delle “externalities”. Così venivano e vengono anche oggi definiti dagli economisti, con un buon livello di ipocrisia, tutti i costi esterni al perimetro dell’impianto di produzione, che si tratti di reflui fluidi o di rifiuti pericolosi o meno da smaltire. E i danni alla salute? Eh, quelli andavano provati caso per caso in un rapporto diretto causa/effetto.

 

Nonostante questa concezione, dominante, legislazione e controlli erano progrediti ovunque, sotto l’incalzare di disastri come quelli di Seveso o di Bhopal o dei ricorrenti sversamenti delle industrie farmaceutiche o chimiche in Germania come in Svizzera. A partire dalla seconda metà degli anni ’80, le direttive europee in materia ambientale avevano fatto da apripista, insieme alle salate multe comminate negli Usa dall’EPA e le class action, divenute poi materia da film. Infatti, se la filosofia generale è quella delle prevenzione del danno, che l’inquinatore sia almeno sanzionato è una richiesta di giustizia che dovrebbe inoltre operare sul piano concreto delle deterrenza contro la reiterazione dei reati. Reati? Se le sanzioni sono solo amministrative e la loro entità pecuniaria è risibile rispetto a quella dei danni prodotti, come spesso è accaduto nel nostro Paese, non c’è deterrenza. Per questo in Europa quasi tutti gli Stati si sono dotati, e da tempo, di appositi titoli sul delitto ambientale nel codice penale; Spagna, Grecia e Portogallo inclusi, per non citare sempre l’Europa del Nord.

 

Non così in Italia, che pure è nota in tutto il mondo per la presenza di quattro organizzazioni criminali, che, qui da noi, controllano ampie porzioni del Sud del Paese e in questi decenni hanno esteso e ampliato i loro “affari” anche nelle regioni “non tradizionali”. L’istituzione stessa, ripetuta ormai sull’arco di sei legislature, della Commissione d’Inchiesta sul ciclo dei rifiuti – la Commissione “ecomafie” – denota la gravità e, al tempo stesso, l’arretratezza del caso italiano.

 

Nonostante il forte impegno dei parlamentari della Commissione “ecomafie”, fin dal 1997, perché venisse  previsto un titolo ad hoc sui delitti ambientali nel codice penale, a tutt’oggi l’unico delitto riconosciuto è quello di traffici illeciti di rifiuti pericolosi, introdotto in chiusura della XIV legislatura (2006). Azione, efficace, di lobby industriali o di collusi con la criminalità stessa, come in molti hanno supposto o argomentato? Molto più sconsolante: l’insensibilità, e quindi la responsabilità, della politica – destra come sinistra –, che in varie circostanze si è mossa, senza neanche esserne richiesta, a dare ai presunti interessi delle amministrazioni territoriali e delle attività produttive una maggior “tutela” che non ad ambiente e salute.

Oggi ci si riprova con un DdL passato dalla Camera al Senato, e viene un po’ in mente un’analogia con l’articolo 9 della Costituzione: abbiamo provato per anni a modificarlo per renderlo più efficace a tutelare l’ambiente – lì si parla solo di “paesaggio” – ma ogni parola di modifica era un possibile trabocchetto. Nel frattempo la giurisprudenza, con le sentenze stesse della Corte Costituzionale, si era evoluta a coprire accettabilmente la difesa generale dell’ambiente.

 

Uguale attenzione alle parole va posta nel DdL sui delitti ambientali. Per esempio, impotabile è la caratterizzazione di un danno ambientale sulla base di effetti “irreversibili”. L’irreversibilità è un fatto di probabilità, come ha ipostatizzato con la sua celebre formula Ludwig Boltzmann, e la reversibilità di un processo è solo molto poco probabile, ma basta aspettare un adeguato numero di anni per poter ripristinare la situazione di partenza. Vedo già principi del Foro citare Boltzmann o Arnol’d a sostenere l’incolpabilità dell’inquinatore che ha prodotto il disastro. Già, perché poi questo è l’unico Paese al mondo dove il residuo della distillazione del petrolio, il tar, è diventato, ove gassificato, “fonte assimilabile alle rinnovabili” e quindi ammesso ai benefici del famigerato CIP 6!

 

Meno cruciale, mi sembra, il dibattito che pure si è acceso sul “delitto di evento”, in quanto meno cautelativo del “delitto di pericolo”. E’ vero che la prima ipotesi configura una localizzazione più stringente, quindi più difficile, nello stabilire il rapporto di causa/effetto tra delitto e sue conseguenze; e, pensando ad esempio al danno sanitario da agente diffuso, rimanda ai risultati di epidemiologie spesso messe in dubbio da chi impropriamente o furbescamente pretende da esse proprio un rapporto di causa/effetto. Però esistono ormai delle acquisizioni di carattere generale che spuntano l’arma della correlazione stretta, ad personam, tra delitto ambientale e la sua vittima, le sue vittime. Sempre nel caso di danno da agente diffuso, il rapporto ufficiale prodotto nel 2011 dall’EEA, l’Agenzia Europea per l’Ambiente, sulla valutazione delle morti in eccesso dovute all’inquinamento industriale ha trovato applicazione in Tribunale, in unione ai modelli fisico-matematici di calcolo, con la sentenza di condanna inflitta in primo grado agli Ad di Enel per la centrale di Porto Tolle, insieme alla quantificazione, fatta dall’ISPRA, di 3,6 miliardi di euro per i danni associati al “disastro doloso”.

 

Insomma, anche nel quadro giuridico esistente si possono colpire gli inquinatori e le loro externalities. E il precedente di Porto Tolle può suggerire alla giurisprudenza estensioni per analogia; si pensi, ad esempio, agli impianti del ciclo dei rifiuti per non parlare dei grandi impianti che hanno segnato con ogni tipo di patologie, fino a quelle tumorali, la storia sanitaria del Paese.

Certo, non ogni disastro ambientale è riconducibile all’“inquinamento industriale”, ma per quelli legati all’onnipresente sfascio geologico del Paese o agli insediamenti abusivi, come si potranno perseguire le responsabilità di chi non ha provveduto alla difesa del suolo, anzi ha cementato corsi d’acqua, o di chi, avendo consentito prima e edificato poi in aree vietate, ha determinato l’esito catastrofico, le vittime, di un evento meteorologico? Responsabilità in capo a soggetti che spesso cambiano nel tempo e spesso sono difficilmente identificabili, nella catena di decisioni che ha portato al delitto, con la precisione richiesta dal codice penale.

Queste riflessioni suggeriscono di lasciare più spazio all’evoluzione della giurisprudenza e della cultura per la definizione di categorie generali come quelle da cui dipende il disastro ambientale, sapendo, da un lato, che anche gli strumenti attuali consentono un significativo livello di repressione, e concentrandosi, dall’altro, sulla definizione di delitti più specifici, sanzionandoli in modo che sia possibile attivare per essi tutti quegli strumenti di indagine – intercettazioni ambientali, telefoniche ecc – in assenza dei quali le indagini sui crimini ambientali diventano improbe, come le vicende delle “ecomafie” hanno ampiamente dimostrato. Come anche maggior attenzione va riservata alla certificazione dei reati sanzionabili con contravvenzioni penali, che deve essere affidata a competenze ambientali specifiche e non a un funzionario pubblico qualunque.

Quanto infine al prevenire, è materia di responsabilità, individuale e sociale, e di capacità e adeguatezza di controllo. Tempi lunghi, insomma.

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