Il tribunale europeo legittima il controverso sistema di protezione degli investimenti che consente alle multinazionali di fare causa agli Stati in caso di leggi che minacciano i loro profitti
Di Sisto: “La creazione di una Corte per gli investimenti, inserita nel CETA su proposta della Commissione europea, rappresenta una minaccia per la democrazia e l’ambiente”
La battaglia su ambiente e diritti nel commercio globale si infiamma dopo la sentenza di questa mattina della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’accordo UE-Canada (CETA). Secondo la Corte, il sistema di protezione degli investimenti inserito nel trattato di liberalizzazione commerciale è compatibile con il diritto europeo. Il parere arriva dopo una richiesta – inoltrata nel 2017 dal Belgio – di esprimere un parere la compatibilità del meccanismo di arbitrato presente nel CETA con il diritto dell’Unione.
La sentenza legittima un sistema controverso, che consente alle multinazionali di fare causa agli Stati per scoraggiare l’approvazione di leggi che minacciano i loro profitti. Qualunque norma sarà impugnabile in tribunali giudicati opachi da molte organizzazioni della società civile ed esperti di diritto internazionale.
«Si tratta di un meccanismo costruito su misura per gli investitori esteri, a scapito della sovranità degli Stati e dei diritti dei cittadini – dichiara Monica Di Sisto, portavoce della campagna Stop CETA, una coalizione di 200 organizzazioni che si batte contro gli impatti dei trattati di libero scambio – Abbiamo dimostrato nel recente rapporto “Diritti per le persone, regole per le multinazionali: Stop ISDS”, che la creazione di Corte per gli investimenti inserita nel CETA su proposta della Commissione europea rappresenta una minaccia per la democrazia e l’ambiente e chiediamo che il Parlamento si attivi immediatamente per bocciare il trattato in blocco, così da aprire in tutta Europa un fronte critico verso il commercio senza regole e senza rispetto dei diritti».
L’Investment Court System (ICS), un sistema lievemente rivisto rispetto al tradizionale Investor-State Dispute Settlement (ISDS), è stato inserito nel CETA con l’intenzione di offrire alle imprese di ciascuna parte contraente una protezione contro leggi che ne possano intaccare la libera iniziativa. Quando una società ritiene che le proprie aspettative di profitto siano andate deluse dalla legislazione del paese ospitante (in questo caso Canada o UE), può chiedere risarcimento tramite l’arbitrato internazionale (ISDS/ICS), un sistema giudiziario parallelo alle corti ordinarie. L’ICS, ad esempio, sarà composto da un pool di avvocati commerciali, pagati a chiamata, che possono approvare richieste di indennizzo virtualmente illimitate da parte delle imprese, condannando gli stati a risarcirle o a ritirare le norme contestate.
«Oggi l’arbitrato internazionale è diventato una macchina da soldi che si autoalimenta grazie al conflitto di interessi – prosegue Monica Di Sisto – I giudici guadagnano se aumentano i ricorsi, male cause provengono unicamente dalle imprese, perché negli arbitrati lo stato può vestire soltanto i panni dell’imputato. Ne consegue che deliberare a favore del privato è l’unico modo per mantenere in salute il meccanismo».
Un meccanismo talmente lucroso da aver attratto, negli ultimi anni, l’interesse di numerosi fondi speculativi, che si offrono di coprire le ingenti spese legali delle società coinvolte (in media 8 milioni di euro) in cambio di una sostanziosa quota del risarcimento ottenuto in caso di vittoria.
Per questo l’opinione della Corte europea di Giustizia, accolta con sollievo dal mondo della grande industria e della finanza, non mette a tacere le obiezioni. Dopo i tre milioni e mezzo di firme raccolte contro TTIP e CETA nel 2015, una nuova petizione contro gli arbitrati ha superato in poche settimane il mezzo milione di firme. La richiesta è di abolire il meccanismo da tutti i trattati commerciali, in vigore e in fase negoziale.
«Rifiutiamo il principio stesso di un tribunale sovranazionale, che consente agli investitori esteri, e soltanto a loro, di aggirare le giurisdizioni nazionali ed europee per contrastare una decisione pubblica che non rispecchia le loro aspettative di profitto. Governo e Parlamento trovino il coraggio di fare quanto promesso in campagna elettorale, bocciando il CETA e mettendo fine all’impunità delle imprese», conclude la portavoce della Campagna Stop CETA.