La Cattura e Stoccaggio di CO2 (CCS) ha forti sinergie con le “rinnovabili”. La differenza? Solo 1% della popolazione è informata di tale tecnologia e di tali sinergie
La quasi totalità delle popolazioni maggiorenni ricadenti nei paesi industrializzati sa cosa sono le “rinnovabili” o ne ha una qualche percezione. La stessa cosa vale per il “nucleare”, ma solo l’ 1% della popolazione, o anche meno, sa cosa sia la tecnologia CCS (in gergo CO2 Capture & Storage) e le sue notevoli implicazione come rimedio ai cambiamenti climatici. Eppure nella Road Map della IEA, così come formulata nel 2009 e tuttora convalidata da quella importante istituzione che decide le politiche energetico-ambientali, la tecnologia CCS è al secondo posto dopo “efficienza” energetica, ma sicuramente prima di “nucleare” e rinnovabili in termini di impatto ed efficacia nella produzione energetica con abbattimento delle emissioni serra.
Senza tornare a spiegare nel dettaglio cosa sia la CCS, in quanto già fatto altrove precedentemente, basti ricordare che la cattura e lo stoccaggio di CO2 si può applicare a qualsiasi grande impianto emissivo (centrali elettriche, cementifici, raffinerie, termovalorizzatori, impianti a biomasse, acciaierie, etc…) in cui l’anidride carbonica possa essere separata (catturata) dallo scarto di combustione dell’impianto stesso o separata durante il ciclo dell’impianto, sia con tecniche fisiche che chimiche e poi trasportata in tubi fino al sito di stoccaggio geologico più o meno distante (anche centinaia di chilometri lontano come da esperienza trentennale USA o canadese). La sequestrazione geologica, di fatto segue dei processi che nelle viscere della terra sono del tutto naturali, essendo la CO2 naturale, e viene svolta solitamente in antichi serbatoi di idrocarburi depleti fin dagli anni ‘70, per produrre meglio e più velocemente il “fondo del barile”. Oppure tale stoccaggio geologico di gas serra può essere effettuato in acquiferi salini non potabili sotto gli 800 metri o, in alternativa ancora, in letti di carbone profondi, dove la CO2 iniettata spiazza il metano contenuto nel carbone e viene adsorbita nei loculi della matrice del carbone stesso, essendo essa più adsorbibile rispetto al metano connato che quindi viene recuperato e venduto. Quest’ultima tecnica di stoccaggio della CO2 si definisce ECBM.
E’ già qui abbiamo un primo potentissimo legame tra CCS e “rinnovabili”: si perché si è recentemente scoperto che alcuni pozzi, in Australia, e nella fattispecie nel Queensland, hanno una capacità di produrre metano da letti profondi di carbone (300-2000 metri) che è 100 volte o più superiore rispetto a pozzi situati anche a poche centinaia-migliaia di metri di distanza. Si è capito che una possibile spiegazione di questa localissima “iper-produzioine” di metano, che sta facendo ricche molte compagnie petrolifere che si accingono a sfruttare i Coal bed Methane (CBM) con o senza aiuto della CO2 iniettata (ECBM), risiede nella circolazione più cospicua, in quel settore del campo CBM, di acque meteoriche ossidanti ed abbondanti. Infatti tutta una serie di processi biologici, catalizzati dalla presenza di batteri produttori di metano in ambiente ossidante, di fatto “rigenera” il metano stesso, che quindi è a tutti gli effetti una energia “rinnovabile”. In sostanza strati ben localizzati e specifici di tipo CBM sono in grado di riprodurre grandi quantità di metano quando acqua ossidante ricircola abbondantemente in quegli strati CBM stessi. Tali tipi di pozzi hanno un bassissimo impatto ambientale.
Il Italia questo tipo di potenzialità sono presenti in Sulcis e nel Grossetano, nella zona di Ribolla, ed in entrambi i casi INGV in primis ha avviato progetti con industrie che ora, con il nuovo decreto legge, firmato, nel silenzio assordante dei media, dal Presidente Napoletano la scorsa settimana, possono richiedere istanze di esplorazione e finanche permessi di stoccaggio di anidride carbonica, in ottemperamento quindi della Direttiva Europea 31/2009 sullo stoccaggio geologico di CO2. Essa è stata formulata in Decreto Legge Italiano, anche grazie al notevole contributo di tutti gli aderenti fondatori dell’”Osservatorio CCS”, con sede alla Fondazione dello Sviluppo Sostenibile (www.osservatorioCCS.org).
Il metano di tipo CBM (e quindi anche ECBM qualora estratto con l’aiuto della iniezione di CO2) ricade nella definizione di “gas non convenzionale” che non è considerato ancora però una “rinnovabile”: indagando però, meglio nel prossimo futuro, sul suddetto ruolo dei processi biogenici e metanogenetici in ambiente ossidante, la definizione potrebbe cambiare. Si pensi le ricadute economiche di questo. Già ora il cosiddetto “gas non convenzionale” ha negli ultimi mesi di fatto disaccoppiato la curva del prezzo del petrolio rispetto a quella del metano. Però si tenga presente che il “gas non convenzionale” è un fenomeno prettamente USA al momento.
Secondo le stime del Dipartimento dell’Energia (DOE) degli Stati Uniti, il gas “non convenzionale” -inteso come somma di shale gas, tight gas e coalbed methane (CBM)- rappresenta circa il 60% delle riserve onshore tecnicamente recuperabili nel territorio USA, tanto che nel 2011 oltre la metà delle nuove riserve sarà costituita da shale gas. Di fatto il tempo di vita sul Pianeta del possibile sfruttamento del metano sembrerebbe in pochi anni raddoppiato (da 60 a 120 anni di vita alle attuali proiezioni del business as usual).
Un vantaggio del “gas non convenzionale” di tipo CBM (e quindi anche di tipo ECBM quando si iniettà la CO2) rispetto agli shale gas è che in questo secondo caso spesso è necessario “fratturare” le rocce attraverso un’operazione che può causare micro-sismicità indotta, un fenomeno oggetto di studi accurati da parte dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, mentre nel caso CBM non si necessita di alcuna “fratturazione” o è meno invasiva, ma soprattutto la tecnica CBM o quella ECBM con stoccaggio di CO2, non richiede l’aggiunta di solventi per far fluire meglio il gas non convenzionale di produzione.
Se gli Stati Uniti sono stati i protagonisti della “rivoluzione dello shale”, la “rivoluzione CBM” australiana è la più emblematica poiché il 70% del metano prodotto nello Stato del Queensland è ormai di tipo CBM e le compagnie di produzione hanno avuto un repentino passaggio delle azioni da pochi centesimi a qualche decina di dollari australiani in pochissimi anni.
Altra grande sinergia tra CCS e rinnovabili è l’accoppiamento possibile tra iniezione di CO2 e produzione geotermica ed in questo sono maestri i nostri colleghi di Berkeley (figura 2) e recentemente anche gli islandesi (Progetto Carbofix), mentre non vi è un grande decollo degli operatori italiani, che sono ancora disarticolati e non lungimiranti, e sicuramente disaccoppiati ancora dalla nostra ricerca che, ormai, avendo catalogato la presenza sul territorio italiano di molte faglie “calde” (Quattrocchi et al., 2011) può senz’altro interagire con gli operatori applicando la legge sulla geotermia del febbraio 2010 e le eventuali modifiche in corso. Esse si spera non tengano fuori da gioco geotermico le tecnologie di installazione di sonde geomagmatiche a ciclo binario “interno”, vale a dire senza iniezione di fluidi, che come nel caso del “gas non convenzionale” può comportare sismicità indotta.
Per quanto riguarda acquiferi salini, riserve geotermiche, punti “caldi”; siti CBM, potenziali ECBM, shale gas ed il tight gas (estratto da sabbie compatte), in Italia non esistono progetti consistenti da parte di operatori petroliferi o di ministeri (es. Ministero dello Sviluppo Economico), ma l’INGV, per il ruolo istituzionale che ricopre (zone sismiche, zone vulcaniche e sicurezza del territorio) ha nei suoi cassetti di fatto un primo data-base che costituisce un catalogo di siti per l’utilizzo sinottico del sottosuolo a fini energetici, utilizzabile dagli operatori (ora in parte pubblicato sulla rivista internazionale “Energy”).
Emeriti membri del Set Plan Energy italiano concordano nell’affermare che se fallisce la tecnologia CCS in ogni caso l’energia costerà di più per tutti e questo è ancor più vero all’indomani delle difficoltà incontrate dal nucleare dopo l’incidente giapponese, in primis in Italia.
In Italia tutto, ad esclusione del Decreto Legge sullo stoccaggio geologico di CO2, sopra-citato, tutto è abbastanza arenato, incluso l’Art. 38 della Legge 99 del 2009, dove si parlava di “definizione di un piano innovativo triennale di promozione della innovazione nel settore energetico da proporre al CIPE”…. Non si vede nulla all’orizzonte, e tutto è più lento se la ricerca italiana in campo energetico, soprattutto quella per uso del sottosuolo, è frazionata tra RSE (Ricerca Sistema Elettrico), ENEA, INGV, CNR, OGS ed ISPRA. Una profonda ristrutturazione, o al limite un super-coordinamento, ai fini di riorganizzare e concertare da subito tutte le forze sarebbe altamente necessaria.