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Cattura e stoccaggio del carbonio: ecco perché non si farà mai

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(Rinnovabili.it) – A condannare la cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) è la matematica. È troppo costoso aggiungere altri passaggi alla filiera della produzione energetica fossile, anche se il documento finale approvato alla COP 21 lascia aperto un grosso spiffero per queste tecniche di trattamento delle emissioni. Se dopo la generazione di CO2 diventa necessario adottare accorgimenti per la sua cattura, il trasporto e lo stoccaggio, il costo finale sarà inevitabilmente un multiplo dell’attuale.

Secondo la ICO2N, organizzazione che promuove il CCS, questo processo dovrebbe costare intorno ai 120-140 dollari per tonnellata di CO2. Una zavorra che andrebbe a sommarsi ai 168-196 dollari spesi per produrre un MWh di elettricità da carbone. Tutto ciò renderebbe inappetibile per qualsiasi mercato l’energia prodotta da fonti fossili, anche nel caso del metano. Va detto, infatti, che quest’ultimo è il principale componente del gas naturale, considerato dall’Occidente il combustibile di transizione verso le rinnovabili, ma dal devastante impatto climatico. Nei primi 20 anni dall’emissione in atmosfera, infatti, il metano ha un potere climalterante 86 volte superiore alla CO2. Gli impianti a gas naturale emettono meno CO2 rispetto al carbone, e l’energia costa 50-70 dollari per MWh. Ad essi, secondo i calcoli, andrebbero aggiunti 95-110 dollari per la cattura e stoccaggio del carbonio.

 

Cattura e stoccaggio del carbonio ecco perché non si farà mai 4Ora, vendere all’ingrosso il carbone o il gas a prezzi – rispettivamente – pari a 20-25 e 15-18 centesimi di dollaro per kWh è una missione impossibile. Le utilities dovrebbero poi rivendere questa energia a costi del tutto fuori mercato.

Secondo una analisi di Mike Barnard, ricercatore dell’Energy and Policy Institute (EPI), le tecniche CCS «non saranno mai economicamente sostenibili rispetto alle alternative». Servirebbe un’infrastruttura di distribuzione due o tre volte quella che oggi permette la distribuzione dei combustibili fossili, e «si tradurrebbe in un costo dell’elettricità quattro o cinque volte più alto». Nel frattempo, eolico e fotovoltaico sono già competitivi – e in molti luoghi anche vantaggiosi – rispetto a carbone e metano. «Questo trend è chiaro – non ha dubbi il ricercatore dell’EPI – La generazione da combustibili fossili, senza cattura e sequestro del carbonio, sta per diventare o è già più costosa rispetto alla produzione da fonti rinnovabili, che non emette CO2 durante il processo ed è sempre più economica».

 

Come avviene la cattura del carbonio

Vi sono due tecniche per catturare la CO2 emessa dalla combustione delle fonti fossili:

alla fonte, cioè tramite la deviazione con catalizzatori, assorbenti e altre tecnologie del flusso di emissioni allo scarico degli impianti

dall’aria, operando come le piante, che sottraggono CO2 all’atmosfera.

 

1. La cattura alla fonte – Nel primo caso, si utilizza energia ricavata dal calore delle emissioni per azionare ventilatori che spingono la CO2 verso i vari punti di filtraggio. È un’operazione che costa un lavoro all’impianto, ossia richiede al sistema maggiore potenza per produrre la stessa quantità di energia. Ogni passaggio aggiuntivo, come evidenziava Barnard, significa perdite economiche.

In genere questo metodo di cattura della CO2 utilizza filtri in ceramica che trattengono l’anidride carbonica lasciando passare tutto il resto. Ma i gas devono avere una certa temperatura perché i filtri lavorino efficacemente. Raggiungere queste condizioni ottimali potrebbe richiedere un raffreddamento dei fumi a monte, e dunque ulteriore lavoro. Inoltre, i fori dei filtri in nanoceramica creano un reticolato che rallenta il flusso di emissioni. Per oltrepassarli è necessario forzare il passaggio dell’aria: un’altra spesa di elettricità, e quindi di denaro. La CO2 prodotta dalla combustione di carbone o metano, inoltre, ha un peso specifico maggiore in entrambi i casi, poiché gli atomi di carbonio liberati sono zavorrati dall’ossigeno. Questo vuol dire che il dispositivo per la cattura e trattamento dell’anidride carbonica avrà dimensioni maggiori di quello per la combustione della materia prima. Per rilasciare la CO2 catturata, le spugne in nanoceramica vengono tuffate in acqua calda. Ma per scaldare l’acqua serve energia. L’enorme calore residuo presente in una centrale termoelettrica permette rifornimenti abbondanti, tuttavia i passaggi della filiera richiedono comunque lavoro e denaro.

Una volta catturato, il diossido di carbonio è un gas, e deve essere compresso o liquefatto tramite raffreddamento. Altro costo energetico ed economico piuttosto consistente. In attesa di essere spedita verso lo stoccaggio sotterraneo, la CO2 dev’essere stoccata in contenitori specifici: ennesimo costo che si aggiunge a tutti gli altri.

 

2. La cattura dall’aria – Alcuni problemi che affliggono il processo CCS alla fonte vengono aggirati, ma ve ne sono altri. La concentrazione atmosferica di CO2, infatti, sebbene abbia superato la soglia critica di 400 ppm (parti per milione), è di molto inferiore rispetto a quella che si ha in prossimità del camino di una centrale elettrica. Questo fa sì che nella stessa unità di tempo, molta più aria debba essere filtrata per sequestrare la stessa quantità di CO2. Le tecniche di geoingegneria ideate negli anni nel campo della cosiddetta Carbon Dioxide Removal (CDR) sono diverse: si va dagli alberi artificiali, che rimuovono chimicamente l’anidride carbonica dall’atmosfera, alle torri di 6 metri munite di ventilatore, che succhiano il gas serra come cannucce.

La CO2 viene comunque sempre filtrata, e i filtri devono essere bagnati in acqua calda per rilasciare l’inquinante assorbito. Poi c’è il passaggio della compressione o liquefazione e quello dello stoccaggio per i successivi usi.

 

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Come si trasporta la CO2 catturata

Quando viene caricata su mezzi di trasporto, servono serbatoi che mantengano una bassa temperatura e una pressione la più alta possibile. Lo spostamento stesso, per di più, avrebbe un costo. Non per nulla gli impianti a carbone e a gas sono costruiti in prossimità di centri abitati o di miniere. Così abbattono i costi di trasporto, e questo vale per la materia prima o l’energia prodotta, non per la CO2 di scarto, il cui costo è molto minore. Anche utilizzando un sistema di condutture, il problema rimane: una rete capace di sopportare la portata della CO2 catturata da tutti gli impianti non esiste. Per costruirla, servirebbero cospicui investimenti.

 

Come avviene il definitivo sequestro della CO2

Per la maggior parte, la CO2 si inietta nei pozzi di petrolio per recuperare quelle risorse difficili da estrarre (Enhanced Oil Recovery). Nelle formazioni rocciose sotterranee, ormai quasi svuotate degli idrocarburi che contenevano, viene pompata anidride carbonica che, grazie alla sua acidità, consente di fluidificare il petrolio in forma fangosa che ancora ristagna sul fondo del pozzo. Quest’ultimo, a questo punto ormai vuoto, può accogliere il gas di scarto. Ma i serbatoi naturali sono porosi in più punti, e non escludono del tutto una lenta e costante risalita in superficie dell’anidride carbonica.

Questo metodo non è da considerarsi un valido processo per il sequestro della CO2, ma gli altri utilizzi del diossido di carbonio hanno un mercato irrilevante: lo si adopera nella produzione di bevande analcoliche, nelle serre industriali e per qualche tipo di cemento.

L’unico sequestro “sicuro” non ha valore commerciale: richiederebbe di iniettare il gas in strutture interrate tramite grandi impianti, trivellazioni, impermeabilizzazione, pompaggio, chiusura e monitoraggio. Operazioni completamente a carico dei produttori di energia, senza alcun vantaggio economico ma solo perdite.

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