L'esperimento in Islanda, nella centrale geotermica più grande del mondo. Il processo è veloce, ma richiede enormi quantità di acqua. Rivoluzione nei sistemi CCS o fuoco di paglia?
(Rinnovabili.it) – Finora la matematica e il buon senso hanno condannato la cattura del carbonio (CCS). Troppo costoso ridurre in questo modo l’inquinamento da CO2, specie se messa a paragone con le tecnologie di generazione energetica rinnovabili, sia con la cattura alla fonte che con la cattura dall’aria. Senza dimenticare gli interessi delle lobby delle fossili, che fanno del CCS la moneta di scambio per continuare a spingere carbone e idrocarburi vanificando così la lotta ai cambiamenti climatici.
Adesso un progetto avviato in Islanda potrebbe aver trovato la quadratura del cerchio: un sistema CCS completamente nuovo, in fase sperimentale, che abbatte i costi complessivi dell’operazione e sembra evitare molti dei rischi associati allo stoccaggio a grandi profondità. L’innovativa tecnologia di cattura del carbonio è stata pubblicata ieri sulla rivista Science e riguarda il progetto CarbFix, avviato nei pressi della centrale geotermica di Hellisheidi in Islanda, il più grande impianto al mondo di questo tipo.
I ricercatori hanno pompato 230 t di CO2 (disciolta in acqua per evitarne la fuoriuscita) all’interno della roccia vulcanica tra i 400 e i 500 m sotto la crosta islandese, riuscendo a velocizzare il processo naturale per cui i basalti reagiscono con il gas per formare dei carbonati – in forma solida – che diventano in seguito rocce calcaree.
La CO2 così diventa roccia, non resta allo stato gassoso. Ma il principale punto di forza è la velocità del processo: come hanno rivelato i traccianti chimici pompati in profondità per monitorare l’esperimento, tutto il gas è mutato in roccia nel giro di 2 anni, mentre le previsioni avevano come unità di misura il secolo. Ma non mancano criticità, la più evidente è l’enorme quantità di acqua richiesta dal processo: il rapporto è 25:1, cioè ben 25 t di acqua per ogni t di CO2.
Nei sistemi CCS convenzionali, la CO2 è stoccata in fase gassosa nelle rocce sedimentarie, spesso all’interno di giacimenti di idrocarburi esauriti. O in via di esaurimento, mossa che torna utile alle compagnie (anche quelle del fracking) per estrarre anche gli ultimi barili disponibili (Enhanced Oil Recovery). Ad ogni modo, quelle rocce a differenza dei basalti non agevolano la trasformazione in roccia della CO2 e devono essere costantemente monitorate per il rischio di una fuoriuscita improvvisa.
In più, il CCS convenzionale è ancor meno conveniente dal punto di vista economico perché richiede la separazione del biossido di carbonio dal mix di gas che compongono le emissioni industriali. Un passaggio che non è invece richiesto dal nuovo metodo.
Il progetto islandese è stato già scalato per raggiungere una capacità di stoccaggio di 10.000 t di CO2 l’anno. Secondo i ricercatori, le prospettive che il processo sia replicabile altrove sono ottime: basta infatti trovare rocce basaltiche simili a quelle di Hellisheidi. La loro attenzione in questo momento si concentra però su un particolare tipo di rocce, il gruppo delle peridotiti, che potrebbe funzionare ancora meglio del basalto e si trova in abbondanza in Oman.