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Cina: chi ha paura della carbon border tax?

Proposta dal neo commissario per il Clima Timmermans, la tassa di frontiera sulla CO2 potrebbe danneggiare la Cina, già pesantemente colpita dai dazi statunitensi voluti dal presidente Trump. Tuttavia, da Pechino manca ancora una chiara politica climatica e il tasso di emissioni cresce di anno in anno

Carbon border tax
Credits: Levi Fraser da Pixabay

Dopo i dazi USA, Pechino si prepara a respingere la proposta europea di una carbon border tax.

 

(Rinnovabili.it) – La Cina si scaglia contro il “protezionismo climatico” e, nello specifico, contro la proposta dell’Unione Europea di istituire una carbon border tax, vale a dire un dazio doganale su beni importati da paesi con norme ambientali meno rigide dell’UE. Secondo il colosso asiatico, infatti, una tassa sul carbonio danneggerebbe gli sforzi degli stati per intraprendere azioni congiunte sui cambiamenti climatici.

 

Il nuovo commissario europeo per il Clima, Frans Timmermans, aveva dichiarato ad ottobre la necessità di esplorare la possibilità di una nuova tassa sul carbonio, che avesse come scopo quello di proteggere le imprese europee dalla concorrenza sleale attraverso l’aumento dei costi per quei prodotti provenienti da paesi che non agiscono adeguatamente contro il cambiamento climatico. Insieme al contrasto alla concorrenza sleale, la carbon border tax avrebbe anche lo scopo di contrastare il fenomeno del cosiddetto carbon leakage, vale a dire il trasferimento delle emissioni di CO2 compiuto dalle imprese che dislocano la loro produzione in paesi in cui i limiti alle emissioni sono meno rigorosi.

 

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Considerando i nuovi dazi imposti dagli USA e l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, è possibile comprendere meglio la reazione della Cina alla proposta di Timmermans, e come e quanto il paese possa sentirsi seriamente minacciato dall’ulteriore protezionismo europeo. Non a caso, Zhao Yingmin, viceministro cinese per l’Ambiente, ha dichiarato gli scorsi giorni che “bisogna impedire all’unilateralismo e al protezionismo di danneggiare le aspettative di crescita globale e la volontà dei paesi di combattere insieme i cambiamenti climatici. Qualsiasi imposta di frontiera, infatti, aumenterebbe il prezzo delle merci cinesi in Europa e, a detta di Pechino, ciò violerebbe un principio fondamentale dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, secondo il quale i paesi più ricchi dovrebbero avere maggiori responsabilità nella riduzione delle emissioni.

 

A questo quadro va aggiunto che, rispetto alla revoca dell’accordo di Parigi, il presidente statunitense Donald Trump aveva sottolineato l’iniquità del concordato facendo proprio riferimento alla sua incapacità di costringere paesi come Cina e India a diminuire drasticamente le loro emissioni. Per quanto riguarda la Cina, uno studio pubblicato recentemente dalle Nazioni Unite mostra come le emissioni della potenza asiatica si siano attestate a circa 14 Gt nel 2018, più del doppio degli Stati Uniti.

 

Sebbene i timori della Cina sulla carbon border tax possano essere comprensibili, c’è da dire tuttavia che mancano ancora degli impegni climatici concreti da parte dei Pechino. Infatti, sebbene quest’ultima abbia promesso “la massima ambizione possibile” in vista della prossima COP25, non è ancora per nulla chiaro quali siano (e di che portata) i suoi obiettivi climatici per il 2030.

 

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