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Siamo sicuri che la CCS sia la soluzione?

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Credits: Adrian Balasoiu via Unsplash

di Matteo Grittani

(Rinnovabili.it) – Tempo di transizione ecologica, tempo di tassonomia verde. Tempo di grandi rivoluzioni nel mondo dell’energia, con policymakers e Istituzioni che si troveranno nei prossimi 10 anni a dover stravolgere il sistema energetico in chiave sostenibile, con un lento e progressivo phase-out delle fossili. Prendiamo l’Europa, dove le emissioni – come ormai arcinoto – dovranno essere ridotte del 55% entro il 2030 e si dovrà giungere alla neutralità climatica entro metà secolo. Il concetto di neutralità climatica è tuttavia molto specifico e spesso viene tradotto con “emissioni zero”. Nulla di più sbagliato.

La neutralità carbonica è un concetto perlopiù contestato dalla comunità scientifica. Il ragionamento alla base è: continuiamo a produrre e consumare esattamente come fino a ora, se possibile anche di più. L’unico accorgimento sarà rimuovere la CO2 in eccesso liberata per non farla rimanere in atmosfera a creare effetto serra e aumentare di conseguenza la temperatura media del pianeta. Semplice no? No. Questo perché la strategia della “neutralità”, sulla carta, contempla la prosecuzione dello sfruttamento delle risorse fossili (basta poi eliminare la CO2 prodotta dalla loro combustione), ma è ovviamente molto diversa da quella più severa che impone emissioni zero, che poggia invece su un rapido sviluppo delle rinnovabili, l’aumento dell’efficienza nei processi industriali, energetici ed economici e soprattutto si basa su una diminuzione degli sprechi e degli squilibri nell’utilizzo delle materie prime e nel fabbisogno annuo pro-capite di energia. Per intenderci, oggi il cittadino statunitense medio consuma 80 mila kWh ogni anno, mentre un omologo del Chad 98, un somalo 244.

Gli stessi strenui fautori della politica di neutralità climatica hanno sempre grande difficoltà a preoccuparsi davvero delle tecnologie di cui l’umanità dovrà servirsi per arrivare alla supposta piena neutralità. Ripetiamo il concetto per chiarezza: tutta l’anidride carbonica che entra nel sistema Terra deve uscire. I più visionari arrivano a sostenere che sarà il mercato a trovare entro il 2050 un modo per riassorbire tutte le emissioni. La gran parte dei fan della neutralità propende invece, più concretamente, per la CCS o CCUS, la cattura e il sequestro di carbonio. Di questa tecnologia ci siamo occupati con un lungo focus in cui ne abbiamo cercato di spiegare a grandi linee il funzionamento, lo stato di sviluppo, la possibilità di “scalarla” su dimensioni globali, la sua economia e infine l’applicabilità all’industria pesante, settore notoriamente difficile da decarbonizzare solamente utilizzando le FER. Qualora vogliate, potete recuperarvi il primo, il secondo e il terzo articolo.

Li riassumo ugualmente per solidarietà: 1) a oggi non è stata dimostrata l’implementazione su larga scala della CCS; 2) l’economia della CCS purtroppo non sta in piedi e applicarla a impianti termoelettrici a carbone o a gas aumenterebbe il Levelised Cost of Electricity (Lcoe) fino al 60% e oltre, rendendo il kWh prodotto dalle fossili fino a due volte più sconveniente di quello generato da solare FV ed eolico; 3) l’impiego della CCS nell’industria pesante è molto difficile per ragioni intrinseche ai processi produttivi e negli ultimi anni sono stati gli stessi investitori e player industriali a bocciarla. Nella quarta e ultima puntata del focus, quella di oggi, ci concentriamo invece su una porzione dell’argomento che spesso viene dimenticata: la sicurezza della Cattura e sequestro dell’anidride carbonica.

I rischi di trasporto e stoccaggio della CO2

Sicurezza. Che sicurezza? Facciamo un piccolo passo indietro. Per una piena implementazione della CCS ci vorrebbero investimenti enormi in infrastrutture e tecnologie necessarie non solo per catturare la CO2, ma anche per comprimerla, trasportarla e poi immagazzinarla in depositi specifici. Tutte queste dinamiche hanno dei rischi. Supponiamo ora per assurdo che tutti i problemi di scala della CCS vengano in qualche modo superati e che anche la non praticabilità economico sia per un attimo messa da parte, per esempio tramite grandi iniezioni di denaro pubblico sotto forma di sussidi. Un gruppo di esperti coordinato da Niall Mac Dowell, professore di Ingegneria dei Sistemi energetici all’Imperial College di Londra, ha stimato l’impatto di un sistema energetico completamente dipendente dalla CCS: l’industria, il giro d’affari e le infrastrutture collegate sarebbero dalle due alle quattro volte più estese di quanto non sia il settore delle fossili oggi. Il loro lavoro è stato pubblicato su Nature Climate Change. Immaginatevi un mercato quattro volte più grande di quello delle fossili oggi, che consuma, produce e ovviamente emette, come qualsiasi altro processo termodinamico nell’universo. E immaginatevi gli sforzi ulteriori che l’umanità dovrebbe fare per riassorbire questa enorme quantità di anidride carbonica (oggi circa 57 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti). Ma per sfortuna non finisce qui.

Come ha notato l’IPCC, insieme alla CCS dovremmo costruire “un enorme network di tubazioni”: parlando di trasporto su medie e lunghe distanze, muovere anidride carbonica, specie attraverso aree densamente popolate, pone rischi di salute pubblica non indifferenti sugli abitanti, di contaminazione dei terreni, delle acque e pericoli di incidenti di vario genere. Rischi del tutto simili a quelli rappresentati dal trasporto di combustibili fossili. Perché? Trasportare con efficienza CO2 in tubazioni apposite significa prima di tutto farle raggiungere pressioni elevate (dell’ordine dei 7 bar) e temperature piuttosto basse (circa – 50 °C). Serviranno dunque delle tubazioni in grado di reggere in queste condizioni, non proibitive, ma non certo standard. Un fattore da tenere sotto controllo è poi la presenza di umidità o contaminanti chimici, che possono rendere corrosiva l’anidride carbonica condensata perfino per l’acciaio. I rischi di rotture e leakage purtroppo esistono. In questo video è possibile vedere cosa succede qualora si verifichi una frattura in una tubazione (NB: in condizioni controllate). D’altronde è la stessa Ipcc a riconoscere che “il leakage dalle condutture di CO2 costituisce un rischio fisiologico potenziale per esseri umani e animali”. Nell’area immediatamente circostante la tubazione, l’emissione repentina di CO2 fa crollare la temperatura a diverse decine di gradi Celsius sotto lo zero, senza contare che a elevate concentrazioni l’anidride carbonica è un gas tossico e un asfissiante capace di causare rapidamente insufficienza circolatoria, coma e morte. Secondo vari enti di ricerca, la presenza accidentale nella miscela di acido solfidrico può elevare questi danni alla potenza. Nonostante non esista ancora una moltitudine di impianti di CCS su larga scala, sono stati registrati diversi incidenti. Il più recente è quello di Yazo County, nel febbraio 2020, quando un tubo da 60 cm percorso da CO2 e anidride solforosa si è guastato rendendo necessaria l’evacuazione di 300 residenti e l’ospedalizzazione di 46 persone.

La CCS non è (ancora) la soluzione

In conclusione, alla luce di ciò che abbiamo visto nei precedenti episodi del focus, e come confermato da quest’ultimo, la cattura e sequestro del carbonio non può essere – almeno in questo momento – la soluzione alla crisi climatica. Almeno per quattro ragioni: non è (ancora) disponibile su larga scala, non è (ancora) economicamente praticabile, non è (ancora) tecnicamente applicabile in vari ambiti e settori, primo fra tutti quello dell’industria pesante e, per finire, non ha (ancora) dimostrato appropriati ed elevati standard di affidabilità e sicurezza necessari per un’eventuale implementazione globale. Tutto ciò non vuole affatto dire che nel giro di alcuni decenni non lo diventi. Il fatto è che la crisi climatica è ora e qui. E non abbiamo tempo per ricercare, sviluppare e produrre su larga scala, con sicurezza, affidabilità e convenienza economica una tecnologia oggi insoddisfacente. Tecnologia che viene vista da più parti come il tentativo di proseguire lungo la stessa identica strada fallimentare e fisicamente insostenibile dello sfruttamento dei combustibili fossili e delle materie prime, delle disuguaglianze nelle opportunità tra aree diverse del globo, delle disparità nelle capacità di far fronte al cambiamento climatico.

In altre parole, la gran parte degli scienziati che si occupa di mitigazione e adattamento agli impatti del climate change tende a pensare che la CCS sia una panacea inefficace, un metodo che l’industria dei combustibili fossili e delle energie tradizionali utilizzerà per perpetuare sé stessa, continuando a produrre energia con carbone, petrolio e gas senza dover rendere conto a nessuno delle emissioni e degli inquinanti prodotti. Gli stessi climatologi, ingegneri, fisici ed economisti ambientali sostengono che i finanziamenti e le politiche di azione per limitare il cambiamento climatico sarebbero molto più efficaci se impiegati seriamente per favorire una completa elettrificazione del sistema, l’eliminazione degli sprechi, la diminuzione dei consumi e il riciclo, l’efficienza energetica e soprattutto uno sviluppo senza precedenti delle due risorse energetiche più abbondanti ed equamente diffuse sul Pianeta Terra: il Sole e il vento, che da soli potrebbero soddisfare l’intera domanda energetica mondiale oltre 100 volte ogni anno.  

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