(Rinnovabili.it) – Le baite in primo piano sono ancora lì, 133 anni dopo, quasi uguali, salvo le lose che hanno lasciato spazio a un tetto in lamiera. Tutto il paesaggio attorno, invece, è stravolto. Il fondo valle – prima invisibile – è sprofondato decine di metri più in basso, rimpicciolito e scavato dalla serpentina di un rio. Sui fianchi del vallone, nudi, sono risalite le specie pioniere, che oggi proliferano in macchie folte su entrambi i versanti. Domina il verde là dove l’occhio dell’uomo, per secoli e secoli, aveva visto solo il bianco sporco dell’enorme lingua di ghiaccio, i riflessi cangianti dei crepacci man mano che il sole fa il suo corso in cielo, sfasciumi grigiastri strappati alla montagna e spinti a valle al ritmo degli inverni. La scomparsa dei ghiacciai, a poterla contemplare da vicino e tutta in una volta, è qualcosa che toglie il fiato e fa sentire piccoli.
La memoria della Terra
Quello al ghiacciaio dei Forni, alta Valtellina, è solo uno dei tanti confronti – spietati e inquietanti, com’è purtroppo la realtà della crisi climatica che attraversiamo – realizzati dal fotografo Fabiano Ventura e presentati in prima mondiale nella mostra Earth’s Memory presso il Forte di Bard, all’imbocco della Val d’Aosta. La memoria della Terra si srotola in 90 fotografie di confronto: a sinistra una foto storica, recuperata grazie a lungo lavoro di ricerca in oltre 200 archivi a tutte le latitudini; a destra la sua replica contemporanea, in un mondo 1,2°C più caldo. Stessa posizione della macchina, stesso periodo dell’anno, stesso momento della giornata, una copia fedele: eppure il più delle volte il paesaggio è irriconoscibile.
Quello che sta succedendo sulle Alpi, Ventura lo ha visto con i suoi occhi in tutte le altre tappe del suo viaggio, lungo 15 anni, che lo ha portato sui maggiori ghiacciai montani della Terra: dal Karakorum al Caucaso, dall’Alaska alle Ande, dall’Himalaya alle Alpi. La scomparsa dei ghiacciai è un fenomeno globale e in accelerazione, spiegava l’Ipcc in un rapporto speciale sulla criosfera pubblicato nel 2019, tanto che entro fine secolo potrebbero perdere anche l’80% della loro massa.
Fotografare un iperoggetto
Di questa assenza, presente e futura, parlano le fotografie di confronto – una tecnica scientifica usata per valutare lo stato di salute dei ghiacciai – esposte alla mostra, che vanta il patrocinio dell’Unesco, una collaborazione scientifico-divulgativa con l’Esa ed è finanziata da diverse società e fondazioni tra cui Enel Green Power, Fondazione Cariplo e Banca Etica. “I ghiacciai sono delle sentinelle del clima, dei termometri terrestri che rappresentano perfettamente la storia climatica della Terra e ci danno un’idea abbastanza precisa di quale potrà essere il futuro”, spiega Ventura. “Con la tecnica della repeat photography si riesce a colpire l’emotività delle persone nel racconto della crisi climatica, con scienza e fotografia che si supportano a vicenda”.
Alcune foto arrivano come un pugno allo stomaco. Succede quando ci si rende conto della rapidità della scomparsa dei ghiacciai. Oggetti enormi che spariscono in così poco tempo: è come toccare con mano la potenza del cambiamento climatico, un altro oggetto (un iperoggetto) che fatichiamo a maneggiare perché lavora spesso su tempi troppo lunghi per l’esperienza umana individuale. Ma non è sempre così. In ogni tappa del suo progetto iniziato nel 2007, Sulle tracce dei ghiacciai, il fotografo lavora fianco a fianco con team di scienziati del clima e glaciologi che monitorano spessore, lunghezza e stato di conservazione dei ghiacciai che finiscono davanti all’obiettivo di Ventura. Da quest’anno però, sulle Alpi, sono saltati diversi punti di monitoraggio: semplicemente, non è più possibile prendere le misurazioni perché il ghiacciaio si è ritirato più indietro di dove lo si è sempre misurato.
La crisi climatica sulle Alpi
In effetti, la situazione sui ghiacciai alpini quest’anno è “la peggiore mai osservata”, peggiore anche del 2003 “quando si era perso dal 5 al 10% del volume complessivo” degli apparati glaciali, conferma Daniele Cat Berro della Società Meteorologica Italiana. A inizio giugno lo stato di fusione della neve sui ghiacciai, complice le alte temperature e le scarsissime precipitazioni dell’inverno, era un mese e mezzo avanti rispetto alla norma. E a metà luglio la perdita di ghiaccio era già arrivata a livelli simili a quelli che nel terribile 2003 furono toccati solo verso il 10 agosto. Un esempio: a fine settembre, secondo i dati della Società Meteorologica Italiana, il ghiacciaio Ciardoney al Gran Paradiso ha perso in media 4 metri di spessore, espresso in acqua equivalente, il triplo rispetto alla media annua degli ultimi 30 anni. E si è ritirato di 30 metri in un’estate, un valore da record dal ’71 a oggi.
La radiosonda di Payerne, nel cantone svizzero di Vaud, il 25 luglio ha rilevato l’isoterma degli 0°C a 5184 metri sul livello del mare. L’unica volta che ha superato i 5000 metri risaliva al luglio 1995. Un evento eccezionale che indica quanto i ghiacciai delle Alpi siano stati sotto stress quest’estate, come ha testimoniato il funesto distacco di parte del ghiacciaio della Marmolada.
Ma c’è una tendenza di fondo, chiara, che rende eventi come quello di quest’anno sempre meno eccezionali ed estremi, e sempre più normali. E con essi, l’irreversibile scomparsa dei ghiacciai. La media dell’isoterma degli 0°C negli ultimi 30 anni, infatti, anche in estate viaggiava attorno ai 3500 metri. Negli ultimi 5 anni, invece, è capitato con molta frequenza che lo zero termico in estate si spingesse a quote superiori ai 4000 metri e vi permanesse per lunghi periodi. Fatto che almeno fino al 2010 era tutto sommato raro e, se capitava, durava per pochi giorni.
Dalla scomparsa dei ghiacciai non si torna indietro
“È sbalorditivo ripetere i risultati del 2003 ad appena 19 anni di distanza. Quello fu un evento fuori scala, praticamente impossibile da spiegare in un clima non alterato dall’incremento dei gas serra. Ma non dovremmo stupirci”, avverte Cat Berro. “I modelli di previsione del clima futuro ci dicono da tempo che stagioni come quella diventeranno sempre più frequenti. Fino a diventare sostanzialmente normali dalla metà del secolo”.
Una previsione che è valida a tutte le latitudini, indice di una causa globale. Che va identificata soprattutto nel cambiamento climatico di origine antropica. Negli ultimi 50 anni, cioè quando abbiamo accumulato la maggiore quantità di riscaldamento globale, le forzanti naturali sono rimaste pressoché statiche. Il clima della Terra ha una sua variabilità naturale, ma non è questa la causa dietro il ritiro dei ghiacciai in tutto il mondo. “Possiamo dire che il riscaldamento degli ultimi 30-40 anni è interamente dovuto all’attività umana”, continua Cat Berro, “E purtroppo non abbiamo nessuna ragione per ritenere che i modelli previsionali sbaglino, per quanto funeste possano essere le previsioni: finora la realtà ha ricalcato gli scenari delineati ormai da decenni”.
Ad alimentare il processo di riduzione dei ghiacciai entrano poi in gioco anche altri fattori, noti come meccanismi di feedback. Cosa significa? In pratica, superate certe soglie, si innescano delle dinamiche che sono in grado di autoalimentarsi anche se viene a mancare la causa originaria. Anche portando subito a zero le emissioni di gas a effetto serra, quindi, è possibile che gli effetti del climate change continuino a manifestarsi in alcuni ecosistemi. Tra cui quelli che compongono la criosfera.
Per quanto riguarda direttamente i ghiacciai, meno neve significa montagne meno bianche. Dunque più calde, perché il suolo assorbe più energia efficacemente. “Sul versante sudalpino, negli ultimi 50 anni, tra i 1000 e i 2000 metri, la durata media del periodo di innevamento si è accorciata di un mese”, ricorda il climatologo. Favorendo l’aumento delle temperature anche a quote più elevate.
In collaborazione con Enel