
La tundra sta conquistando terreno nell’Artico per via del riscaldamento globale. La vegetazione artica si espande e il terreno ghiacciato cambia aspetto e colore. È il fenomeno del greening, il rinverdimento dell’Artico. Ma lo sta facendo a una velocità senza precedenti. Lo dimostrano le molecole delle pareti cellulari e dello strato di cera che protegge le foglie delle piante delle isole Svalbard.
A studiare i cambiamenti in corso su questo avamposto artico, a metà strada tra la Norvegia e il Polo Nord, è uno studio internazionale pubblicato su Nature Communications Earth & Environment e coordinato dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp).
Il rinverdimento dell’Artico non è un fenomeno recente, affonda le radici all’inizio del 20° secolo, spiega lo studio. Ma il greening sta accelerando in modo drammatico negli ultimi decenni.
Rinverdimento dell’Artico, un archivio di sedimenti ne svela la storia
Per ricostruire l’evoluzione della vegetazione artica, i ricercatori hanno analizzato un carotaggio di sedimenti marini prelevato nel Kongsfjorden, un fiordo delle Svalbard influenzato dalle correnti atlantiche. Questo archivio naturale, spesso 112 cm e con una risoluzione temporale di 5-10 anni per centimetro, ha conservato per 780 anni le tracce chimiche della vita vegetale trasportata dai fiumi e dai ghiacciai in ritiro.
Lo studio analizza questo spaccato plurisecolare della storia delle Svalbard con un approccio innovativo. Basato sull’identificazione di biomarcatori specifici, cioè di molecole prodotte esclusivamente dalle piante terrestri. Tra cui la lignina e la cutina, componenti strutturali delle pareti cellulari delle piante vascolari. E gli n-alchini, cere protettive delle foglie.
Confrontando queste impronte digitali chimiche con campioni di muschi, licheni e piante raccolte sul campo, il gruppo di ricercatori ha distinto le diverse fasi di colonizzazione della tundra.
Il legame tra ghiaccio marino, ghiacciai e vegetazione
I risultati mostrano una correlazione temporale strettissima tra la riduzione del ghiaccio marino estivo, il ritiro dei ghiacciai e l’espansione della tundra. Durante la Piccola Era Glaciale (1400-1900), quando le temperature artiche erano fino a 3°C più basse rispetto al periodo preindustriale, il Kongsfjorden era avvolto da una spessa coltre di ghiaccio marino per gran parte dell’anno. I ghiacciai raggiungevano la costa, limitando drasticamente gli spazi disponibili per la vegetazione.
Con l’inizio del riscaldamento antropico, attorno al 1900, il sistema ha subito una svolta epocale. Secondo lo studio, si è verificata una triplice evoluzione:
- declino del ghiaccio marino: la copertura glaciale estiva nel mare di Barents è diminuita del 30% nel 20° secolo, esponendo ampie aree costiere alla radiazione solare;
- ritiro dei ghiacciai: nelle Svalbard, il 60% dei ghiacciai è in ritiro accelerato dagli anni ‘90, liberando ogni anno nuovi territori;
- colonizzazione vegetale: le superfici emerse sono state rapidamente occupate da muschi e licheni, seguiti da piante vascolari come il Salix polaris, un salice nano adattato al clima artico.
Gli anni ’90, punto di non ritorno per l’Artico
L’analisi dei sedimenti del Cnr rivela che il picco dell’espansione della tundra si è verificato alla fine degli anni ’90. Periodo in cui il riscaldamento globale ha subito un’impennata.
In questa fase, la vegetazione non solo ha ampliato il suo areale, ma ha anche cambiato composizione:
- nelle zone proglaciali (le aree recentemente liberate dai ghiacci), la biomassa vegetale è aumentata del 150% rispetto agli anni ’60;
- il già citato Salix polaris ha raddoppiato la sua presenza, sostituendo gradualmente i muschi pionieri (le specie definite “pioniere” sono le prime a rioccupare un’area di territorio liberata dai ghiacci);
- i marcatori biologici legati alle piante mature (come i composti fenolici della lignina) sono diventati dominanti: questo indica un ecosistema in fase di stabilizzazione.
Che cosa significa tutto questo? È avvenuta e si è consolidata una maturazione del suolo. Con il progressivo accumulo di materia organica e il miglioramento delle condizioni microclimatiche, specie più complesse hanno potuto attecchire. Innescando un ciclo di feedback positivo. Un esempio? Le radici delle piante vascolari accelerano lo scioglimento del permafrost, creando nuovi habitat ma rilasciando anche carbonio stoccato nel terreno.
Un Artico più verde quindi non porta con sé soltanto notizie positive. “Se da un lato l’aumento della copertura vegetale potrebbe favorire il sequestro di carbonio atmosferico, dall’altro un cambiamento così drastico delle aree precedentemente occupate dai ghiacciai potrebbe portare a conseguenze significative sui cicli biogeochimici e sull’areale di distribuzione della fauna autoctona”, spiegano i ricercatori del Cnr.
“Inoltre, la fusione del permafrost, accelerata dall’aumento della temperatura, potrebbe rilasciare nell’atmosfera grandi quantità di gas serra, vanificando i benefici derivanti dall’incremento della biomassa vegetale. In questo caso, la crescita della vegetazione in Artico e un ambiente sempre più ‘verde’ rappresentano un serio campanello di allarme per i fragili ecosistemi polari”, concludono.