Contenuto realizzato nell’ambito del progetto CNR 4 Elements
di Chiara Boschi
Il sequestro mineralogico della CO2 lo abbiamo imparato dalla natura dove le rocce silicatiche – come basalti, peridotiti e serpentiniti – assorbono anidride carbonica innescando la dissoluzione di silicati e ossidi di magnesio, calcio e sodio e si trasformano in rocce ricche in carbonati. L’equazione della reazione chimica genericamente è scritta come:
MO+CO2 →MCO3 +calore
Dove MO rappresenta un ossido o un silicato di un metallo alcalino-terroso come calcio e magnesio. In natura vediamo che quando la CO2 entra in contatto con minerali come olivina, serpentino e wollastonite li discioglie e si forma spontaneamente un nuovo minerale come magnesite e calcite rilasciando energia:
Mg2SiO4 + 2CO2 → 2MgCO3 + SiO2+ 89 kJ mol–1CO2
olivina + anidride carbonica → magnesite + silice + energia
Mg3Si2O5(OH)4 + 3CO2 → 3MgCO3 + 2SiO2 + 2H2O + 64 kJ mol–1CO2
serpentino + anodride carbonica → magnesite + silice + acqua + energia
CaSiO3 + CO2 → CaCO3 + SiO2 + 90 kJ mol–1CO2
wollastonite + anidride carbonica → calcite + silice + energia
È un processo spontaneo, detto anche di “carbonatazione”, che produce energia e che avviene in tempi variabili da molto brevi – giorni – a molto lunghi – decine o centinaia di anni. Quando ancora non si parlava dell’aumento allarmante di CO2 in atmosfera dovuto all’utilizzo di combustibili fossili, la carbonatazione si studiava perché rappresenta un’alterazione di rocce molto ricche in ferro e magnesio, dette mafiche e ultramafiche, di grande importanza per il ciclo “naturale” del carbonio. Un pezzo di un puzzle dove il carbonio, elemento eclettico e fondamentale per la vita, passa da essere disperso in atmosfera a essere intrappolato in un reticolo cristallino di un minerale stabile per tempi geologici. Queste stesse rocce, molto diffuse sia in ambiente continentale che marino, possono poi – in zone di subduzione (cioè laddove una placca continentale sprofonda per fondersi nel mantello terrestre) rilasciare lo stesso carbonio che hanno intrappolato per migliaia o milioni di anni al loro interno. Il carbonio liberato ritorna disciolto nei fluidi circolanti per andare a formare altri minerali o uscire nuovamente in atmosfera, sotto forma di emissione naturale.
La studio del ciclo geologico della CO2 ha contribuito ancora di più ad affascinarci sulla incredibile geodiversità del pianeta terra, dove il fluire degli elementi tra una sfera ed un’altra permette di fatto la creazione di habitat geologici diversi ed estremi, quelli che supportano l’esistenza della meravigliosa biodiversità che stiamo mettendo in pericolo.
L’utilizzo di combustibili fossili come gas naturale, petrolio e carbone ha segnato il cammino della rivoluzione industriale e del nostro attuale sviluppo economico ed industriale ma ha alterato drammaticamente il ciclo naturale del carbonio con l’immissione di miliardi di tonnellate di anidride carbonica in atmosfera ogni anno. I depositi di gas, petrolio e carbone che si trovano a profondità “geologiche” sono un’altra parte del puzzle del ciclo del carbonio e senza il loro sfruttamento da parte dell’uomo non avrebbero in nessun modo alterato l’equilibrio dinamico del clima.
Ed ecco nascere, parallelamente al crescente allarme climatico, tecnologie di geoingegneria come il sequestro mineralogico della CO2 indotto o accelerato – definito anche accelerated carbonation.
L’idea è semplice e risale agli anni ‘90 del secolo scorso: mimiamo la natura, riproduciamo, induciamo o acceleriamo il processo di sequestro di anidride carbonica a livello industriale per “ripulire” la nostra atmosfera dall’eccesso nocivo di CO2. Prendiamo una roccia “spugna” – serpentiniti, basalti, peridototi – e induciamola a intrappolare CO2 per formare carbonati stabili. Per farlo sono state proposte differenti soluzioni. Una prima è di iniettare la CO2 in profondità in strati confinati di rocce “spugna” dove la CO2 può rimanere intrappolata in un primo momento in forma liquida e poi andare a formare i tanto attesi carbonati. Una seconda soluzione è quella di utilizzare le rocce che affiorano in superficie e costruire un impianto su misura dove far convogliare la CO2 da industrie adiacenti per farla reagire.
Con lo svilupparsi di politiche di economia circolare questo stesso processo è stato poi declinato per fini diversi. Gli ossidi di magnesio, sodio e calcio non si trovano infatti solo nei basalti, nelle peridotiti e nelle serpentiniti ma anche in un numero consistente di materiali derivanti da processi industriali.
Un nuovo mercato in espansione riguarda infatti l’utilizzo degli scarti dell’industria siderurgica, delle acciaierie, del cemento e dei termovalorizzatori per ‘immagazzinare’ anidride carbonica. L’obiettivo è di rendere il processo di decarbonizzazione di industrie come acciaierie e cementifici economicamente vantaggioso e circolare. I loro scarti non andranno più a finire in discarica ma serviranno a catturare la CO2 prodotta. E una volta esaurita la loro capacità di stoccare anidride carbonica, questi ‘nuovi’ materiali – i carbonati appunto – saranno reimmessi nei processi industriali stessi per la produzione di cemento e di acciaio, o utilizzati come inerti per fondi stradali.
Quale di queste soluzioni sia la più giusta in un determinato contesto regionale e quale no è materia di considerazioni non solo tecnico-scientifiche ma anche politiche, economiche e sociali. Molto spesso le soluzioni di “geoingegneria”, come quella del sequestro mineralogico di CO2, sono osteggiate da gruppi politici o di cittadini. Altre volte si ritengono eccessivamente costose e poco efficaci a livello di impatto ambientale.
Per questo e molti altri motivi, tra i quali spicca tristemente una mancata programmazione di politica ambientale che affligge non solo l’Italia, ad oggi risultano pochi impianti attivi di sequestro mineralogico e di riconversione mineralogica di rocce o materiali contenenti ossidi di calcio o magnesio.
Da qualche mese è finita la ventiseiesima COP a Glasgow che ha proposto ancora una volta una serie di target ambiziosi e di aperture verso un nuovo modo di gestire la nostra società, dove la transizione energetica deve avere un ruolo chiave per arginare gli impatti dei cambiamenti climatici.
La tecnologia di sequestro mineralogico di CO2 ha una potenzialità di sviluppo enorme e può essere di aiuto e fungere da supporto in una pianificazione di raggiungimento degli obiettivi di emissioni zero al 2050 e di economia circolare di prossimità. Non ci lasciamo sfuggire questa occasione. Sarebbe la ventiseiesima volta che lo facciamo.
Progetto GECO: https://www.igg.cnr.it/ricerche/progetti-finanziati/geco
di Chiara Boschi, IGG-CNR