Il bilancio di emissione e assorbimento di CO2 nella tundra artica sta cambiando a causa di un insieme complesso di fenomeni riconducibili al forte aumento delle temperature e al conseguente scongelamento della parte più superficiale del permafrost
Contenuto realizzato nell’ambito del progetto CNR 4 Elements
di Mariasilvia Giamberini e Antonello Provenzale
Nel corso della storia del nostro pianeta, il clima ha mostrato sia variazioni lente sia cambiamenti rapidi (in senso geologico), questi ultimi spesso innescati dall’instabilità di qualche componente del “sistema Terra” e associati all’attraversamento di un “punto di non ritorno”. In un periodo come questo, in cui osserviamo grandi cambiamenti dovuti al riscaldamento globale e alle altre pressioni antropiche, i climatologi indagano sulle condizioni che possano attivare questi meccanismi di potenziale instabilità. Uno, in particolare, è legato al rapido scongelamento del permafrost, il suolo permanentemente ghiacciato delle latitudini polari.
Nello specifico, il permafrost è “quella parte di suolo che resta congelato per almeno due anni consecutivi”. Oggi, almeno un quarto del suolo dell’emisfero nord è occupato da permafrost. Può sembrare incredibile, ma la stima di quanto carbonio sia intrappolato nelle sostanze organiche che lo compongono indica un valore tra 1460 e 1600 miliardi di tonnellate di carbonio. Una quantità enorme, che si stima essere la metà del carbonio organico contenuto nei suoli delle regioni più calde, e che è circa due volte quella attualmente contenuta nelle molecole di CO2 in atmosfera: se tutto il permafrost si scongelasse e le sostanze organiche intrappolate venissero completamente decomposte, la concentrazione di CO2 in atmosfera triplicherebbe, con conseguenze drammatiche sul clima. Per fortuna questa è solo un’ipotesi estrema, ma il bilancio di emissione e assorbimento di CO2 nella tundra artica sta effettivamente cambiando, a causa di un insieme complesso di fenomeni riconducibili al forte aumento delle temperature e al conseguente scongelamento della parte più superficiale del permafrost, con i successivi effetti sull’ecosistema della tundra. Anche se le incertezze sulla quantificazione di questi fenomeni sono ancora grandi, qualcosa si sta riuscendo a capire.
Andiamo per gradi: è ormai noto che l’Artico si sta scaldando a una velocità circa doppia rispetto alla media del pianeta, per un fenomeno chiamato “amplificazione artica”, dovuto fra le altre cose alla diminuzione delle superfici coperte da ghiaccio o neve, che genera la diminuzione dell’albedo, cioè della capacità di riflettere la luce solare. L’Artico infatti è più freddo delle zone temperate non solo perché i raggi del sole vi arrivano con una potenza per unità di superficie minore, ma anche perché le superfici bianche del ghiaccio e della neve riflettono la luce invece che assorbirla. Però, con il riscaldamento globale, più i ghiacci si scongelano, e meno giorni all’anno il suolo è coperto da neve, più diminuisce l’albedo e cresce la porzione di suolo e mare non coperti da ghiaccio o neve, che, essendo più scuri, assorbono la radiazione solare invece che rifletterla. Suolo e mare quindi si scaldano, contribuendo ulteriormente all’aumento della temperatura che favorisce ulteriore fusione di ghiaccio e neve. Questo meccanismo di “retroazione positiva” (feedback positivo) ha fatto sì che le temperature medie in Artico siano aumentate di oltre due gradi negli ultimi decenni.
L’aumento delle temperature comporta, come conseguenza, anche un aumento della profondità a cui il suolo si scongela ogni anno (la profondità del cosiddetto “strato attivo”); lo strato attivo si espone quindi a una maggiore biodegradazione da parte dei microorganismi del suolo, e quindi a una maggiore produzione di CO2 (in condizioni di respirazione aerobica, cioè in presenza di ossigeno) o di metano (in condizioni di respirazione anaerobica, cioè in assenza di ossigeno, come nelle torbiere e lagune).
Allo stesso tempo, il numero maggiore di giorni in cui la tundra è libera dalla neve allunga il periodo in cui la vegetazione è in grado di attivare la fotosintesi e quindi assorbire anidride carbonica. La maggior concentrazione di CO2 in atmosfera ha anche un effetto fertilizzante, e causa un maggiore sviluppo della biomassa vegetale e quindi della capacità della vegetazione di assorbire CO2. Inoltre, temperature più miti permetteranno a specie con maggiore biomassa di spingersi più a nord.
Purtroppo però, ad oggi non ci sono segnali che indichino che i cambiamenti nella vegetazione possano compensare l’aumento della respirazione e quindi delle emissioni di CO2. Non si tratta più quindi di capire se le emissioni di CO2 dalla tundra aumenteranno a causa del riscaldamento globale, ma di valutare quanto e in quali tempi, e le conseguenze di questo feedback positivo sia sul clima e sugli ecosistemi artici che sul cambiamento climatico globale.
Per fare questo calcolo ci viene incontro la modellistica, sia diagnostica (cioè che spiega i dati attuali e passati) che predittiva, cioè che cerca di capire cosa succederà in futuro. La modellistica diagnostica, “empirica” (cioè che tenta di spiegare i dati sperimentali, senza entrare nel merito dei processi che generano i fenomeni osservati) o “deterministica” (cioè che invece cerca di spiegare i processi alla base dei fenomeni osservati) è fondamentale per capire quali sono le variabili che più influenzano un fenomeno, e quantificarne il contributo. Quanto la respirazione batterica dipende dalla temperatura? Quanto dal contenuto di umidità del suolo? Quanto dal tipo di colonie di micro organismi?
I calcoli e le misure sulle emissioni di CO2 dal suolo artico sono però spesso riferiti alla stagione estiva, quando lo “strato attivo” è scongelato, la notte scompare ed è più semplice raggiungere l’Artico, condurre misure in campo e installare strumentazione. Valutazioni recenti hanno portato a concludere che anche nei restanti otto-nove mesi, grazie allo “scudo protettivo” del manto nevoso, il metabolismo dei micro organismi non cessa di funzionare e che quindi le emissioni di CO2, sebbene di minore intensità, continuano e costituiscono una parte rilevante del bilancio annuale. Il bilancio delle emissioni di CO2 va quindi purtroppo rivisto al rialzo. L’installazione recente di nuovi strumenti in diverse stazioni di misura in Artico, come la nuova torre di Eddy Covariance installata dall’Istituto di Geoscienze e Georisorse presso la base di ricerca CNR a Ny Ålesund alle Isole Svalbard, porteranno a una migliore quantificazione dei flussi di CO2 sia estivi che invernali.
Inoltre, un’altra grande incognita dello scongelamento del permafrost è dovuta alla formazione e, conseguentemente, all’emissione di metano (o di gas naturale), che è un gas climalterante venti volte più potente della CO2. In parte, il rilascio di metano è dovuto alla liberazione delle sacche di gas formate in passato dalla biodegradazione della sostanza organica in condizioni anaerobiche (cioè in mancanza di ossigeno) e che sono accumulate in “lenti” all’interno del permafrost, pronte a fuoriuscire in atmosfera a seguito di fratture o all’apertura di pori nel suolo scongelato. Ma anche il fenomeno del “termocarsismo”, cioè il collasso del suolo dovuto allo scongelamento e ruscellamento dell’acqua, genera metano: la fusione del ghiaccio nel suolo lascia dei vuoti su cui il suolo soprastante collassa. Nelle depressioni così formate nascono nuove zone umide in cui prevalgono batteri anaerobi che producono metano. Questo tipo di emissione è intensa e localizzata, difficile da prevedere, da quantificare e da intercettare.
Nonostante le incertezze che accompagnano misure e stime in una zona del mondo vasta e difficilmente accessibile, e quelle delle previsioni modellistiche, il recente rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sull’oceano e la criosfera (2019) ci permette di comprendere cosa aspettarci in futuro rispetto ai vari scenari di emissioni antropiche di CO2, attraverso una accurata sintesi dei risultati delle pubblicazioni scientifiche del settore.
Lo scongelamento del permafrost continuerà per tutto questo secolo e anche oltre, come effetto del “feedback positivo” spiegato all’inizio di questo articolo. Nello scenario di emissioni antropiche più restrittivo si prevede comunque per il 2100 una diminuzione della superficie terrestre occupata da permafrost variabile tra il 10 e il 40%, che si estende al 50-90% nel caso peggiore, con una stima di emissioni totali che possono arrivare alla metà di quelle antropiche nel caso dello scenario emissivo peggiore considerato nei modelli. In questo scenario drammatico la notizia positiva è che politiche efficaci di abbattimento delle emissioni antropiche, limitando il riscaldamento globale, possono frenare significativamente anche la velocità di scongelamento del permafrost e mitigare le conseguenti emissioni di CO2. Sta quindi a noi darci da fare per evitare quelle instabilità climatiche di cui abbiamo parlato all’inizio.
di Mariasilvia Giamberini e Antonello Provenzale – Istituto di Geoscienze e Georisorse – CNR