La perdita colpirà il 13% delle specie marine epipelagiche
(Rinnovabili.it) – Superare la soglia di 2 gradi può causare una perdita di habitat negli oceani irreversibile per secoli per molte specie marine che vivono nei primi 200 metri di colonna d’acqua. Una combinazione di temperature dell’oceano più alte e di perdita di ossigeno sarebbe fatale al 13% delle specie il cui habitat si trova nella fascia epipelagica. Proprio quelle più importanti per la pesca.
Lo sostiene uno studio apparso su Communications Earth & Environment, il primo ad arrivare alla conclusione, contraria al consenso scientifico attuale, che la perdita di habitat negli oceani sarebbe “irreversibile”. Il concetto di irreversibilità non va inteso in senso assoluto ma relativamente alla scala temporale umana: nello specifico, secondo lo studio le condizioni inabitabili perdurerebbero almeno fino al 2300.
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Per arrivare a questo risultato, gli autori hanno incrociato le previsioni sull’aumento del riscaldamento globale e i suoi effetti sulla deossigenazione degli oceani con l’indice metabolico di 72 specie di pesci. “Questo indice mette insieme le perturbazioni del riscaldamento globale con i loro effetti sulla distribuzione della vita negli oceani, tenendo conto del rapporto tra l’offerta di ossigeno e la domanda a riposo; entrambi dipendono dalla pressione parziale ambientale dell’ossigeno, dalla temperatura e dai termini fisiologici specie-specifici”, spiegano gli scienziati.
Un aspetto importante che emerge dallo studio è la tempistica con cui l’impatto della perdita di habitat negli oceani diventerebbe visibile. La maggior parte del danno, infatti, si verificherebbe dopo un ritorno della temperatura globale al di sotto dei 2°C.
“È probabile che queste alterazioni richiedano secoli per riprendersi, anche se la temperatura globale tornasse ai livelli iniziali. Poiché la nostra analisi considera un aumento e una diminuzione relativamente rapidi della temperatura globale, si prevede che un superamento “reale” e l’implementazione delle emissioni negative a seguito dell’implementazione del CDR [la cattura diretta della CO2 dall’aria] richiederebbero molto più tempo”, concludono gli autori.