
In 5 anni, il numero di impianti di risalita dismessi tra Alpi e Appennini è raddoppiato. Basta questo dato a fotografare lo stato di profonda crisi in cui versa l’industria della neve in Italia. Una situazione che dovrebbe spingere il settore a reinventarsi, ma finora la tendenza è, piuttosto, verso un “accanimento terapeutico” e alla reiterazione di modelli ormai insostenibili. Settore che non sembra considerare le dinamiche – irreversibili nel breve-medio periodo – dettate dal cambiamento climatico.
I numeri dell’industria della neve in Italia
Il quadro che emerge dall’ultima edizione del rapporto Nevediversa di Legambiente è preoccupante. In Italia gli impianti dismessi hanno raggiunto quota 265 nel 2025, un numero più che raddoppiato rispetto ai 132 censiti nel 2020. Nonostante ciò, il numero di impianti riutilizzati o smantellati è rimasto invariato a 31. A questi si aggiungono 112 impianti temporaneamente chiusi e 128 strutture che operano a regime ridotto.
Particolarmente significativo è il dato sugli impianti sottoposti a quello che Legambiente definisce “accanimento terapeutico”: ben 218 strutture distribuite in 37 comprensori che ricevono continui finanziamenti pubblici per mantenersi in vita nonostante le crescenti difficoltà economiche e ambientali.
Il rapporto segnala inoltre 15 progetti che rappresentano investimenti anacronistici in un’epoca di profonda crisi del settore. Tra questi spicca il collegamento Colere-Lizzola in Lombardia, un progetto a quote medio-basse con un costo previsto di 79 milioni di euro di fondi pubblici, definito “insostenibile, fuori tempo, fuori luogo e di costo esorbitante”.
Che nel prossimo futuro i vecchi modelli dell’industria della neve continueranno a essere insostenibili lo certificano i dati dell’impatto del riscaldamento globale su precipitazioni nevose, durata del manto alle diverse quote, e temperature medie.
C’è un trend inequivocabile di progressiva riduzione delle precipitazioni nevose, senza segnali di inversione. Tuttavia, nonostante questa tendenza, gli investimenti in tecnologia per la neve artificiale non stanno diminuendo, alimentando un meccanismo che, una volta interrotto, rischia di lasciare dietro di sé un’enorme quantità di infrastrutture abbandonate. E creare conflitti. Un esempio? Il bisticcio tra bacini artificiali per l’innevamento e domanda di acqua per usi domestici e industriali. Non è fantascienza: in Friuli Venezia Giulia, intorno al 20 dicembre, è stata dichiarata l’impossibilità di procedere con l’innevamento artificiale delle piste di Ravascletto perché l’acquedotto comunale doveva dare priorità alle utenze domestiche e commerciali: semplicemente, non c’era abbastanza acqua per tutti.
“Quanto sta accadendo ad alta quota è solo la punta di un iceberg – commenta Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – la crisi climatica sta avanzando a ritmi preoccupanti, la fusione dei ghiacciai da un lato, la diminuzione delle nevicate, ma anche la chiusura di diversi impianti insieme a quelli che faticano spesso a restare aperti, dall’altro, sono facce della stessa medaglia su cui va aperta una importante riflessione che deve essere accompagnata da interventi concreti. Si continua ad alimentare la pratica dell’innevamento artificiale, che comporta consistenti consumi di acqua e di energia, senza invece mettere in campo una chiara strategia di adattamento e mitigazione alla crisi climatica. È da qui che bisogna partire, se si vuole arrivare ad una migliore gestione del territorio”.