Non uno, ma due nuovi obiettivi per la finanza clima. Uno fissato a 1.300 miliardi di dollari l’anno, la cifra che chiedono i paesi in via di sviluppo. E un altro che si ferma a 250 miliardi di dollari l’anno, in linea con i numeri (200/300 mld $) di cui hanno discusso i paesi più ricchi lontano da microfoni e osservatori in queste due settimane di Cop29 sul clima a Baku.
La proposta di compromesso presentata da Mukhtar Babayev, presidente di turno della 29° conferenza sul clima in corso in Azerbaijan, la mattina del 22 novembre, è un esercizio di equilibrismo che potrebbe funzionare. Portando il summit sul cambiamento climatico di Baku verso il traguardo più importante: decidere il nuovo quadro della finanza clima post 2025. In gergo, il Nuovo Obiettivo Collettivo Quantificato (NCQG).
Senza dimenticare, però, un punto fondamentale: la cifra proposta – 250 mld $ l’anno – è oggettivamente troppo bassa. Secondo il Gruppo di Esperti Indipendenti dell’Onu incaricato di calcolare il fabbisogno di finanza climatica, il NCQG deve arrivare almeno a 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 e 390 miliardi di dollari all’anno entro il 2035.
Cosa dice l’ultimissima versione dell’accordo sul NCQG? Qual è la via di mezzo proposta dalla presidenza azera della Cop29? Come accoglie le richieste – incompatibili tra loro – avanzate da Nord e Sud globali?
Vediamo nel dettaglio il nuovo testo del New Collective Quantified Goal. Abbiamo parlato qui della bozza precedente, rilasciata la mattina del 21 novembre, e delle reazioni negative degli Stati al testo. Qui parliamo degli elementi principali del negoziato sul Nuovo Obiettivo Collettivo Quantificato (NCQG) alla Cop29. Qui invece avevamo parlato dei risultati della Cop28 nei filoni negoziali sulla finanza climatica.
Finanza clima alla Cop29, cosa dice l’ultima bozza di accordo sul NCQG?
Il trucco usato dalla presidenza di turno della Cop29 è fissare un obiettivo vero e un obiettivo “meno vero”.
In termini più tecnici, il target di 250 miliardi di dollari l’anno, contenuto nell’art.8:
- è obbligatorio,
- non riguarda solo i paesi sviluppati, cioè non sono esclusivamente i paesi ricchi a dover contribuire. E’ qualcosa di completamente nuovo, che scardina l’approccio e le regole usate finora. I paesi ricchi però devono sostenere la parte maggiore dello sforzo (“take the lead”),
- è formulato come estensione del target precedente di 100 mld $ annui con richiamo diretto al testo dell’Accordo di Parigi,
- dipende da un “decides”, formulazione forte nel linguaggio della diplomazia del clima,
- deve essere raggiunto entro il 2035.
Invece, il target di 1.300 miliardi di dollari l’anno, contenuto nell’art.7:
- non è formalmente obbligatorio, indica più una soglia a cui aspirare,
- riguarda tutti gli Stati, sia quelli sviluppati che quelli in via di sviluppo. Come il precedente, ma in forma esplicita (“all actors”). Formula che indica anche soggetti privati (es. banche),
- è formulato come soglia minima a cui aspirare, ma non ha un richiamo diretto al Paris Agreement,
- dipende da un “calls”, una richiesta, termine molto meno forte di “decides”,
- deve essere raggiunto entro il 2035.
Chi deve pagare?
L’ultima bozza è una rivoluzione per la diplomazia del clima. Scardina il principio per cui sono solo i paesi più ricchi ad avere un obbligo di impegnare risorse in finanza climatica. Anche se lo fa in modo non esplicito e rispettando ancora il principio delle responsabilità condivise ma differenziate (principio CBDR).
Formulare i 2 obiettivi distinti è un modo per accontentare le parti e chiudere i negoziati con un successo. Ma allo stesso tempo fa passare il messaggio che anche i paesi in via di sviluppo “sono chiamati” a contribuire. Un po’ meno di un obbligo, un po’ più di un impegno solo volontario.
Per far accettare un boccone molto amaro al Sud globale (almeno, a paesi del Sud globale con grande capacità contributiva, come Cina, Arabia Saudita, ecc.), la proposta all’art.10 specifica che questo accordo non cambia in nulla il loro status di paesi in via di sviluppo e di paesi beneficiari.
Non è affatto scontato che questo testo sia accettato dai paesi in via di sviluppo. Fondamentale sarà osservare la reazione della Cina, che nelle conferenze sul clima figura come paese in via di sviluppo. Pechino non vuole obblighi, e l’ultimo testo non gliene assegna. Anche se le prossime conferenze sul clima potrebbero usare questo precedente per cambiare anche formalmente le regole su chi deve contribuire alla finanza clima.
Quali tipi di finanziamenti climatici sono ammessi?
La proposta di compromesso mantiene la cifra di 1.300 miliardi di dollari, la richiesta su cui si erano assestati più o meno tutti i gruppi negoziali che rappresentano i paesi in via di sviluppo e i paesi meno sviluppati, il Sud globale.
Tuttavia, la esprime come obiettivo a cui contribuiscono finanziamenti “da tutte le fonti”, quindi sia private sia pubbliche. E non parla di differenze tra una componente di finanza fornita direttamente dagli Stati e un’altra componente di finanza “mobilitata”, come chiedeva il Sud globale.
“Tutti i paesi in via di sviluppo hanno convenuto sull’obiettivo di 1,3 trilioni di $, ma vogliono che tale importo venga “mobilitato”, ovvero finanza pubblica e finanza privata collegata agli investimenti pubblici”, scrive in un tweet Josh Gabbatiss di Carbon Brief. “In breve, vogliono che questo denaro venga fornito alle condizioni presentate qui per i 250 miliardi di $”.
La cifra di 250 miliardi è anch’essa da raggiungere con ogni forma di finanziamento. Il testo riprende letteralmente quello del Paris Agreement, cioè le condizioni in vigore oggi per il target dei 100 miliardi.
Sovvenzioni o prestiti?
Rispetto alle bozze precedenti, passa molto in secondo piano la questione della forma dei finanziamenti. Il Sud globale vuole sovvenzioni (grants) o condizioni analoghe alle sovvenzioni. Il Nord globale vuole mantenere una quota di prestiti o comunque una molteplicità di forme di finanziamento possibili.
L’accordo si limita a riconoscere “la necessità di risorse pubbliche e basate su sovvenzioni e di finanziamenti altamente agevolati, in particolare per l’adattamento e la risposta alle perdite e ai danni nei paesi in via di sviluppo, in particolare quelli che sono particolarmente vulnerabili e hanno notevoli limitazioni di capacità, come i paesi meno sviluppati e i piccoli Stati insulari in via di sviluppo”.
Mitigazione e adattamento
Altro punto che passa in secondo piano, dopo essere stato molto discusso alla Cop29 di Baku: il rapporto tra finanziamenti per le azioni di mitigazione e quelli per le misure di adattamento al cambiamento climatico.
La proposta di compromesso si limita a chiedere un “equilibrio” tra i due ambiti. E non cita più i Loss & Damage, le risorse per le perdite e i danni causati ai paesi più vulnerabili da eventi climatici estremi. Molti paesi del Sud globale volevano includerli come terza “gamba” a fianco di mitigazione e adattamento, ai fini della finanza climatica.
Le reazioni alla proposta di compromesso sulla finanza climatica (NCQG)
Durissime le reazioni di molte delegazioni dei paesi in via di sviluppo all’ultima proposta di Nuovo Obiettivo Collettivo Quantificato (NCQG). Altrettanto trancianti quelle della società civile. Mentre le poche voci che arrivano dai paesi più ricchi parlano di un primo passo positivo per arrivare a un buon accordo.
Il Sud globale: proposta “inaccettabile e inadeguata”
Il Gruppo dei paesi africani rispedisce al mittente la proposta. “L’obiettivo proposto di mobilitare 250 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 è totalmente inaccettabile e inadeguato“, dice Ali Mohamed, inviato del Kenya che parla a nome del Gruppo.
Due i punti più contestati. Da un lato la cifra troppo bassa: “Il solo Adaptation Gap Report afferma che le esigenze di adattamento ammontano a 400 miliardi di dollari“. Dall’altro lato, l’allargamento della platea dei paesi contribuenti: “non sono più i paesi sviluppati a essere responsabili secondo questa formulazione. Viene presentato come un obiettivo per il quale tutti i paesi sono responsabili e in cui i paesi sviluppati stanno prendendo l’iniziativa. Ciò è inaccettabile”.
ll Gruppo AOSIS (l’Alleanza dei piccoli stati insulari) si dice “profondamente delusa” dall’ultima bozza. “Si tratta di un obiettivo di investimento che rappresenta una frazione degli almeno 1,3 trilioni di dollari necessari per proteggere efficacemente il nostro mondo dagli impatti più catastrofici dei cambiamenti climatici”, dichiara.
Una dichiarazione congiunta di Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern, copresidenti dell’Independent High-Level Expert Group on Climate Finance, afferma che i 250 miliardi di dollari sono “troppo pochi e non coerenti con il rispetto dell’accordo di Parigi”.
Questo gruppo di esperti Onu è incaricato di fornire un rapporto annuale dove stimano il fabbisogno di finanza climatica. E’ uno dei principali punti di riferimento scientifici per il quantum. Gli autori del rapporto ricordano che la loro analisi, aggiornata a novembre 2024, “mostra che il NCQG, sulla base delle componenti che copre, dovrebbe impegnare i paesi sviluppati a fornire almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 e 390 miliardi di dollari all’anno entro il 2035”.
Per l’Australia si tratta di uno “sforzo sincero” per arrivare a un compromesso, mentre per la Germania “non siamo ancora arrivati a un punto di atterraggio, ma almeno non siamo in aria senza una bussola“.
Società civile e osservatori: “proposta troppo debole”
Di proposta “troppo debole” parla Luca Bergamaschi di ECCO, un think tank italiano specializzato in energia e clima. “C’è ampio spazio per puntare più in alto per i prossimi 10 anni e in linea con le richieste dei paesi africani”, continua. Per Bergamaschi, si può aumentare l’ambizione sulla finanza climatica rispetto ai 250 miliardi “con il conteggio di tutta la finanza sul clima, compreso il contributo delle Banche Multilaterali di Sviluppo, e attraverso nuovi strumenti come la tassazione internazionale”.
Ancora più duro Soomin Han di Climate Action Network – Canada, per il quale la proposta è un “fiacco e deludente miscuglio di parole”. Gli aspetti peggiori, secondo Han, sono la mancanza di un impegno per risorse da garantire in forma di sovvenzioni, per aumentare i fondi per l’adattamento, e per incrementare quelli per Loss & Damage. La proposta sarebbe “contraria allo spirito dell’Accordo di Parigi” perché “sposta la responsabilità sul Sud globale”. Mentre Climate Action Network International dice chiaramente: “nessun accordo è meglio di un cattivo accordo”.
Amaro il commento del think tank africano Power Shift Africa: “le nostre aspettative erano basse, ma questo è uno schiaffo in faccia”. Per il WWF è un testo “completamente inadeguato” che “manca completamente il bersaglio”. Il target di 250 mld $ è “di gran lunga troppo basso” e “i Paesi ricchi non si impegnano nemmeno a raggiungere l’obiettivo”, sottolinea Mariagrazia Midulla, Responsabile Clima ed Energia del WWF Italia. “Abbiamo bisogno di un nucleo di finanziamenti pubblici più vicino a 1.000 miliardi di dollari”, aggiunge.
Critiche analoghe arrivano da Climate Analytics per voce di Bill Hare. L’obiettivo di 250 mld $ è “debole” perché “qualsiasi tipo di finanziamento può essere conteggiato, e deve essere raggiunto solo entro il 2035, il che significa che è essenzialmente un tetto massimo” e non un punto di partenza. Inoltre, “Espande anche la base dei contribuenti per includere qualsiasi cosa finanziata dalle banche multilaterali di sviluppo. Significa che i paesi sviluppati non stanno accettando la responsabilità che hanno”.