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Emissioni di carbonio artico: più pericolosi i depositi antichi o quelli giovani?

carbonio artico
By Dave FoxOwn work, CC BY-SA 4.0, Link

Il permafrost Artico si scioglie una velocità sempre crescente: a preoccuparci non dovrebbero essere le emissioni di metano “antico”, ma quelle di carbonio “giovane”

(Rinnovabili.it) – La temperatura nell’Artico potrebbe aumentare fino a 7°C sopra le attuali medie, a causa del global warming. Ma anche se non si raggiungessero tali picchi nella colonnina di mercurio, uno dei più grandi depositi di carbonio sulla terra, il permafrost, continuerebbe ad essere in pericolo

Le temperature artiche, infatti, mantengono il terreno permanentemente gelato a profondità di qualche metro. Le piante che durante le brevi estati crescono negli strati più alti del suolo decadono successivamente in questo terreno il quale si congela ulteriormente all’arrivo della neve invernale. È da migliaia di anni che qui il carbonio si accumula: le stime parlano di un quantitativo di un quantitativo “stoccato” nel permafrost doppio rispetto a quello attualmente presente nell’atmosfera.

Parte di questo carbonio ha più di 50.000 anni, il che significa che le piante che si sono decomposte in quel suolo sono cresciute oltre 50.000 anni fa. Tali depositi, noti come Yedoma e formatisi da 1,8 milioni a 10.000 anni fa, si trovano principalmente nell’Artico della Siberia orientale e in alcune parti dell’Alaska e del Canada.

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A causa del riscaldamento globale il permafrost sta rilasciando nell’atmosfera il carbonio artico congelato sotto forma di metano e biossido di carbonio. A preoccupare gli scienziati fino ad oggi è stato soprattutto il rilascio del metano. Ma un recente studio, pubblicato su Science, suggerisce che il rilascio di questo gas erra non ha contribuito in modo massiccio al riscaldamento globale verificatosi durante l’ultima deglaciazione, (tra i 18.000 e gli 8.000 anni fa). Tale periodo è molto studiato nelle scienze climatiche in quanto rappresenta “un analogo parziale del riscaldamento moderno. L’ultimo ritiro dei ghiacci, infatti, registrò un aumento delle temperature globali di 4°C, approssimativamente ciò che accadrà al pianeta entro il 2100.

Il nuovo studio, condotto nella regione artica della Siberia orientale, ha confrontato l’età delle diverse forme di carbonio artico che si trovano negli stagni, nei fiumi e nei laghi le cui acque si scongelano durante l’estate, rilasciando gas serra dal permafrost circostante. Abbiamo misurato – spiegano i ricercatori – l’età del biossido di carbonio, del metano e della materia organica trovati in queste acque usando la datazione al radiocarbonio e abbiamo scoperto che la maggior parte del carbonio rilasciato nell’atmosfera era in gran parte “giovane”. Dove c’era un intenso disgelo di permafrost, scoprimmo che il metano più vecchio aveva 4.800 anni e il diossido di carbonio più antico aveva 6000 anni”.

Di conseguenza in questa regione il carbonio rilasciato proviene principalmente dalla materia organica delle piante più giovani: ciò significa che il carbonio prodotto dalle piante che crescono durante ogni stagione estiva viene rilasciato rapidamente nelle estati successive. “Questo rapido turnover libera molto più carbonio rispetto al disgelo del permafrost più antico”. 

Secondo i ricercatori, visto che durante questo secolo la maggior parte delle emissioni provenienti dall’Artico sarà molto probabilmente di carbonio artico “giovane”, potremmo non aver bisogno di preoccuparci delle emissioni provenienti dal permafrost antico. In ogni caso l’Artico rimane una fonte primaria di emissioni, poiché il carbonio che era imprigionato nel suolo “solo poche centinaia di anni fa, si disperde comunque nell’atmosfera“. Questo fenomeno “aumenterà quando le temperature più calde allungheranno l’estate artica. E il “quando” non pare essere molto lontano. 

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